Il ‘sindacato dei poveri’ costituisce una formula impegnativa che richiama l’esigenza che anche i sindacati possano fare qualcosa contro la povertà. L’interrogativo sarebbe stato superfluo in altre epoche (passate), come illustra bene Gian Primo Cella. I lavoratori e i poveri erano spesso contigui, e le prime forme embrionali di solidarietà abbracciavano tendenzialmente tutti i più deboli.
Nel corso dei decenni in cui l’azione sindacale è divenuta più matura, essa però si è anche specializzata, finendo coll’aggregare rivendicazioni ed interessi in prossimità delle contraddizioni delle lavorative.
Per cui di fronte a confini che in anni lontani (ma forse neanche tanto) non sarebbero esistiti, ma che sono oggi visibili, diventa legittimo l’interrogativo: i sindacati, che si sono fisiologicamente insediati nello spazio della rappresentanza dei ‘penultimi’, possono anche attivarsi e promuovere politiche o interventi dedicati agli ‘ultimi’? (il lessico da usare poi può essere vario e l’influenza cattolica e del Papa variamente adattata).
Quali sono le ragioni che militano a favore di questa ri-dislocazione (parziale) dell’impegno sindacale?
La prima consiste nel fatto che, rispetto ad un recente passato, sono saltate o sono diventate più evanescenti le linee di demarcazione tra i lavoratori e i poveri: cosa che ci riporta agli scenari sociali di un lontano passato, che sembrava superato e che coincide grossomodo con la genesi dei sindacati.
Sono diventati più sfumati non per ragioni positive, ma per uno spostamento verso il basso di tanti lavoratori. I quali pur lavorando guadagnano cifre irrisorie e vicine alle soglie della povertà (è stata coniata la formula dei working poor). Sono in generale lavoratori con contratti brevi e orari corti. Ma in questa sede non vogliamo approfondire il loro profilo socio-lavoristico, piuttosto sostenere che il fenomeno è in crescita e preoccupante.
La seconda ragione naturalmente consiste nell’esplosione quantitativa delle nuove povertà indotte dalla Pandemia. Non si tratta di un quadro così sorprendente data la situazione: ma resta ugualmente drammatico. E segnala un disagio sociale largo e non tollerabile. Per inciso il profilo di questi ‘poveri’ in certa parte coincide con quelli precedenti, ma in larga misura si discosta, essendo piuttosto da attribuire all’impoverimento di tanti autonomi ‘vulnerabili’ (nell’economia dei servizi chiusa a singhiozzo).
La terza ragione, chiaramente adombrata da Cella, risiede nella necessità che i sindacati rilegittimo la loro azione sul piano sociale, confermandosi nel voler essere – dopo anni sbiaditi – uno degli agenti e dei collanti delle radici comunitarie della nostra vita collettiva. Insomma non limitarsi alla rappresentanza dei soli interessi organizzati e ‘corporativi’, ed evitare di lasciare un vuoto che potrebbe essere coperto impropriamente da altri, così nel contempo rinnovando le ragioni etiche che militano a favore della persistenza del loro ruolo.
Insomma che i sindacati diano un segnale pratico di attenzione e di mobilitazione nei confronti dei poveri pare essere oltre che utile anche necessario.
Ma in quali modi?
Le opzioni in campo sono diverse e non si escludono tra loro.
In primo luogo sarebbe utile una scelta esplicita e non meramente formale ad opera delle grandi Confederazioni. Al loro interno si muove già un largo nucleo di volontari e di persone impegnate, oltre che di attività più o meno strutturate (come ben ritrae Bruno Manghi nel suo intervento). Il punto ulteriore potrebbe essere quello di una sanzione solenne per farne un obiettivo importante e condiviso da tutti, oltre che per incentivare altri ad impegnarsi.
Un altro aspetto rilevante, e figlio di una predisposizione non occasionale, può invece consistere nel rafforzamento di alcune politiche contrattuali e salariali. Intanto nella direzione di evitare uno slittamento di alcuni gruppi deboli verso il basso (si pensi al troppo dimenticato settore del ‘pulimento’, giustamente richiamato da Amoretti). O anche nel potenziare politiche contrattuali premianti verso i lavoratori che durante la Pandemia sono stati più esposti e più performativi, come quelli impegnati in tutta la filiera della logistica: i quali oltre ad essere sottopagati e stressati sono spesso immigrati.
Ed ovviamente contribuire alle politiche pubbliche di contrasto alla povertà: per quanto sia possibile e cioè consentito dagli attori politico-istituzionali. Ma anche in questo caso, al di là dell’accesso all’arena delle scelte politiche, il punto davvero importante riguarda se questo oggetto diventa centrale, o meno, nelle richieste e nelle pressioni sindacali. Questo è anche il momento opportuno per immaginare stanziamenti consistenti con lo scopo di sistematizzare strumenti, che in parte già esistono, ma che vanno rafforzati e vanno meglio finalizzati. Sarebbe opportuno che le tante sirene che si sono levate contro il cosiddetto reddito di cittadinanza (spesso sulla base di pochi casi patologici), voluto confusamente – ma voluto – dai penta-stellati, aggiustassero il tiro. Quelle misure politiche erano necessarie, ma dovevano essere mirate al loro compito precipuo di contenere la povertà e i suoi effetti (come accade nelle principali legislazioni europee). Dunque andrebbero ricondotte al loro nocciolo effettivo. Liberate dalle ambizioni ambiguamente sottese (reddito di base) o esplicitamente messe all’ordine del giorno (le politiche di attivazione), tali politiche possono perseguire i loro compiti di allontanamento dalla povertà mediante risorse e strumenti più appropriati.
Ma questo riguarda i rami alti dell’azione sindacale, dai quali sarebbe comunque bene non prescindere.
Molta dell’attenzione, e della spinta originaria di questa discussione, è stata giustamente appuntata al sindacato quotidiano e al suo fare. Qui si presenta un grande spazio, perché esiste una dotazione importante – per usare un’espressione impegnativa – di ‘capitale sociale’: una presenza diffusa nel territorio, con un impatto maggiore nelle piccole realtà, una disponibilità significativa di volontari e un serbatoio di disponibilità verso i più deboli in grado di organizzarsi positivamente. Il sindacalismo italiano resta comparativamente il soggetto con radici sociali e organizzative sul piano numerico più solide e qualche volta sottoutilizzate.
Al riguardo tutti gli esempi fatti (Leghe, Camere del lavoro etc.) sono validi e segnalano a ragione che l’aspetto chiave consiste nell’azione territoriale e nella vicinanza alle persone e ai problemi. Questa è una risorsa originaria del movimento sindacale che va opportunamente attivata o riattivata in questa come in altre direzioni.
Il sindacato, anzi in questo caso è d’obbligo il plurale, che si riferisce alla varietà delle sensibilità, esperienze e culture presenti, può fare un tratto di strada importante con i poveri.
Purché non sia il solo a mettersi in questo cammino.
Domenico Carrieri