All’inizio Duemila si aprì il dibattito su cosa fosse meglio fare per il centrosinistra italiano. Sull’onda della vittoria dell’Ulivo di Prodi, avvenuta nel 1996, si cominciò a pensare a un Partito unico (anche se la dicitura suonava leggermente sovietica), che avrebbe messo insieme i Ds di origine comunista e la Margherita di origine democristiana, più pezzi sparsi del mondo progressista. C’era chi sosteneva che si trattava di un’idea geniale, un contenitore finalmente unico politico ed elettorale per tutti quegli italiani che si consideravano di sinistra, o almeno non di destra. Una sorta di Partito democratico americano, però italiano. E c’era invece chi diceva che in politica la somma non fa il totale, e che quindi unificare due forze politiche esistenti non avrebbe consentito di raddoppiare iscritti e voti (la storia italiana peraltro questo ci aveva detto, basti pensare all’unità socialista degli anni Sessanta: un fallimento). E comunque sostenevano i detrattori del progetto, sarebbe stata una scommessa persa perché non era scritto da nessuna parte che un ex comunista e sostenevano un ex democristiano, si sosteneva un partito a loro agio nello stesso partito.
Ma i detrattori persero e il Pd nacque nel 2007, subito dopo la seconda vittoria di Prodi avvenuta l’anno precedente. Walter Veltroni fu eletto segretario a furor di popolo e raggiunge un ottimo risultato nel 2008, quasi il 34 per cento dei voti. Però perse la partita contro “l’esponente principale dello schieramento a noi avverso”, come lui parlava di Berlusconi senza volerne pronunciare il nome. Ma Veltroni, nonostante la sconfitta, rimase giustamente in carica, fino a quando la convive in quel partito che lui stesso aveva fondato gli diventò insopportabile (grazie soprattutto alla guerriglia che gli chiamavano D’Alema ei dalemiani). E si dimezza.
Da allora sono passati più di dieci anni e il Pd ha cambiato altri quattro segretari, più due che fecero da reggenti tra uno e l’altro. E già questo rende l’idea di quanto quell’amalgama non fosse riuscito (come disse D’Alema, che non era mai stato innamorato del Pd). Vittorie dimezzate (Bersani nel 2013), trionfi renziani (34 per cento nel 2014, ma erano elezioni europee e il premier, nonché segretario, appunto Renzi, aveva garantito un bonus di 80 euro per tutti coloro che avevano guadagnano meno di 26 mila euro lordi all’anno). Sconfitte renziane (politiche del 2018, il Pd precipita al 18 per cento), nulla di fatto con Zingaretti (il Pd resta al 18 per cento), stesso discorso con Letta, forse con qualche decimale in più ma insomma la storia non cambia.
Cinque più due segretari in 15 anni non sono pochi, e diverso dall’altro come cultura, storia politica, progetti (tranne Bersani e Zingaretti). Significa che quel partito un’identità e un vero leader non l’ha mai trovato, né ha trovato il suo popolo giusto. Ha perso gli operai, ha perso i poveri (che ha regalato non si sa perché ai Cinquestelle di Conte), non ha convinto i giovani. E’ insomma rimasto ancorato a quello zoccoletto duro di progressisti, benestanti e intellettualmente evoluti, ma non è stato soprattutto capace di andare oltre.
E adesso che fa, il Pd, dopo aver subito l’ennesima sconfitta, la più bruciante visto che chi ha vinto è la giovane erede di Almirante (sarà un caso, ma la sua stanza nella sede di via della Scrofa è la stessa dell’ ex capo del Msi)? In teoria dovrebbe ricominciare da capo se non da zero, dovrebbe cercare di capire perché non attrae più i suoi vecchi elettori né i nuovi, perché risulta antipatico, presuntuoso e autocentrato. Perché insomma non vede più quel che accade nel paese e, di conseguenza, il Paese non vede lui. Certo sarebbe un lavoro faticoso, che durerebbe anni, con pochissime soddisfazioni e moltissime delusioni. Ma sarebbe l’unico modo per ritrovare la strada perduta.
Invece, per l’ennesima volta, sceglie la scorciatoia: cambia leader e discute sul proprio nome, forse per cambiare anche questo. Come se con Bonaccini o chi per lui, e chiamandosi Pippo o Pluto invece di Pd, milioni di elettori, che magari stavolta si sono astenuti, si precipiterebbero a votarlo.
Una volta i comunisti dicevano “veniamo da lontano e andiamo lontano” (Palmiro Togliatti). Oggi quelli del Pd possono solo imitare Prodi a sua volta imitato da Corrado Guzzanti: “Io sto qui, fermo, come uno semaforo”.
Riccardo Barenghi