Lo sgomento paralizza i pensieri. Le immagini dei bombardamenti, le fiamme, i palazzi crollati, le urla, i cadaveri, i feriti, i bambini, le donne, i vecchi, gli animali, la fuga, il pianto, i carrarmati, gli elmetti, i fucili, le grida, i proclami, le cartine geografiche, gli scenari, il dolore, la paura. “In nome di Dio fermatevi!” , implora il Papa. Ma quale Dio? Quello dei cattolici o quello degli ortodossi? Allah o Jahvè? No, Dio, ammesso che esista, non è in Ucraina. Come non era ad Auschwitz. E non è nemmeno nello Yemen, in Siria, in Afghanistan, in Libia, in Etiopia, in Sudan, nel Burkina Faso. Dove si muore per le granate, la fame, la sete, le malattie, l’uomo ha di fronte solo la propria ferocia.
La volontà di potenza sopraffà ogni scrupolo morale o religioso. E gli autocrati, come Vladimir Putin, incarnano quello che Gerhard Ritter definiva “Il volto demoniaco del potere”. L’invasione dell’Ucraina ha riportato indietro le lancette della storia e agli spietati conflitti locali ha sovrapposto lo spettro della terza guerra mondiale, l’Apocalisse. Il mondo balla sull’orlo di un baratro, disse John Foster Dulles, segretario di stato Usa ai tempi del conflitto in Corea. Il fungo atomico agitava l’immaginario collettivo ma poi, quelle che un tempo si chiamavano le grandi potenze, trovavano il modo per evitare il conflitto finale. Come ai tempi dei missili sovietici a Cuba.
Sembrava che la caduta del muro di Berlino e la fine del comunismo reale avessero cancellato in modo definitivo quegli incubi. E invece ci siamo di nuovo dentro, stavolta fiaccati da due anni di pandemia. Troppi errori, sono stati fatti. Ci si è illusi che il libero mercato avrebbe sgravato il mondo dalle sue contraddizioni e invece le diseguaglianze, lo sfruttamento, la corruzione, la protervia, l’indifferenza, il profitto a tutti i costi, hanno risvegliato i mostri.
Ora si discute, e si litiga, sulle cause di quel che accade. Ma se ci si limita a pesare le responsabilità della Nato e quelle della Russia non si va da nessuna parte. Per troppo tempo si è flirtato con il nuovo zar per fare affari e ottenere appoggi. Sembrava che tutto gli fosse concesso, dal far uccidere o incarcerare gli oppositori al concentrare enormi ricchezze nelle mani di pochi oligarchi. Perché non ci si mobilitò per chiederne la deposizione quando fece assassinare Anna Politkovskaja? Perché non si sono adottate stringenti sanzioni economiche quando usava il polonio per eliminare i dissidenti? O quando portava lo scempio in Cecenia?
In realtà faceva comodo. Un interlocutore ostico ma munifico. Persino il suo decisionismo veniva portato ad esempio contrapponendolo ai riti stanchi e lenti della democrazia. Ora tutti sembrano volersi rifare una verginità paragonandolo ad Hitler, con una mistificazione storica che confonde il progetto di dominio universale e gli abomini razziali del Terzo Reich con il mito del grande impero russo. Il filo che va da Pietro il Grande all’odierno dittatore passando per Stalin non è lo stesso che legava il Fuhrer al pangermanesimo ariano. Ad unirli ci sono però due concetti tragici e antichi, il sangue e la terra. Gli stessi che sono alla base del più vieto nazionalismo e che rappresentano i prodromi di ogni evento bellico. I confini, dalla tribù alla presunta patria, costituiscono l’anima nera di ogni bellicismo. È l’aratro che traccia il solco ma è la spada che lo difende, proclamava il nostro Duce.
Ora si discute se sia giusto dare armi ai combattenti ucraini. Il paragone con i partigiani non regge perché allora gli alleati paracadutavano i fucili dicendo: resistete, perché noi stiamo per arrivare. Ma in questo caso chi deve arrivare? Si sostiene che gli invasori, convinti erroneamente di poter realizzare un’operazione lampo, più ostacoli trovano più perdono sicurezza. E che alla fine, stretti dal cappio dell’embargo, dovranno per forza trattare. Ma quanti morti, quante macerie, quanti profughi ci vorranno ancora? E poi, mettere il mitra in mano ad un ragazzo o a una fanciulla e invitarli dal nostro divano a rischiare la vita per contrastare l’oppressore e difendere la libertà dell’Europa, ha il tono di un macabro inganno.
Arrendersi, d’altro canto, non possono. È questa la contraddizione enorme che devasta le nostre coscienze. Forse al punto in cui siamo giunti non si può fare altro, compresa la necessità di mostrare i muscoli della terribile deterrenza atomica in parallelo con ogni sforzo diplomatico.
Bisogna però avere consapevolezza di quello che abbiamo davanti. La corsa agli armamenti è già in atto e il pacifismo, da Ghandi a Capitini, una reliquia del passato, che strappa un sorriso di compatimento da parte di chi pensa di avere la verità in tasca. Il pensiero binario, il bene contro il male, un concetto che i contendenti possono ogni volta rovesciare a proprio comodo, non offre scappatoie. E dà la parola agli eserciti.
La piena, concreta, ineludibile, appassionata solidarietà con il popolo ucraino deve essere accompagnata da un effettivo esame di quali sono i princìpi che sentiamo violati. Tra questi, ai primi posti, insieme con la libertà, vanno messi l’uguaglianza, la giustizia sociale, la dignità del lavoro, il rispetto per il clima, la parità di genere, l’equità, la solidarietà, l’internazionalismo. Stiamo facendo così oppure, più o meno consapevolmente, prepariamo il terreno per altri conflitti? L’ Europa unita sarà vessillifera di concordia? Riusciremo a capire che non si può dare asilo in base all’etnia e al colore della pelle?
Tu sì, perché sei simile a noi, tu no, perché sei diverso. Un orrore, foriero di eterne crociate.
Marco Cianca