Il salario minimo non vi salverà. Ma come?, viene da chiedersi, non doveva essere l’ancora di salvezza per il naufragio dei salari italiani che non crescono da trent’anni? Non doveva essere la ricetta per tutelare il potere d’acquisto di lavoratrici e lavoratori martirizzati dal susseguirsi incessante di crisi? Il medicamento per curare uno dei mali di cui soffre il lavoro dipendente in Italia? A quanto pare, secondo Savino Balzano che titola il suo ultimo libro (Fazi Editore, 168 pagine, 12 euro) con questo vaticino, non è proprio così. Anzi, tutt’altro. A parlare è un sindacalista, studioso del mondo del lavoro, che declina il dibattito sul salario minimo dal punto di vista dei lavoratori, coloro i quali di questa legge dovranno beneficiare o dovranno subirla. Balzano, però, è chiaro fin dall’inizio del suo ragionamento: il salario minimo è l’ennesimo tentativo di sabotaggio della massa dei lavoratori da parte del potere, già fin qui sfibrato e avvizzito da anni di politiche neoliberiste che hanno sbilanciato il rapporto tra capitale e lavoro tutto a vantaggio di pochi: la grande finanza internazionale, le multinazionali, i colossi economici. “Ce lo chiede l’Europa”, chiosano i sostenitori della legge riferendosi alla direttiva del Parlamento e del Consiglio relativa a salari minimi adeguati nell’Unione Europea. Una direttiva «paradossale» e «piena di lacune gigantesche» che, stando alla lettura dell’autore, si pone in continuità con tutta una serie di gravi attacchi ai lavoratori e alle lavoratrici già perpetrati attraverso politiche di austerity calate dall’alto sugli stati nazionali nei momenti di emergenza. Come preconizzò l’economista Friedrich August von Hayek, cita Balzano, «Serve un reddito minimo di cittadinanza a livello sufficiente affinché i poveri non raggiungano un grado di disperazione tale da rappresentare un pericolo fisico per le classi ricche». Sterilizzare la rivolta con una «leggina» che pone sotto ricatto uomini e donne privati di potere contrattuale che dal lavoro fanno dipendere la propria sussistenza e quella delle loro famiglie.
Per l’autore la premessa fondamentale per comprendere la “trappola” del salario minimo per legge – come emblematicamente suggerisce la copertina del volume – è la contestualizzazione e storicizzazione del dibattito sul tema, ripercorrendo tappa per tappa i percorsi di graduale impoverimento e precarizzazione dei lavoratori italiani – che affondano le radici ben prima della stagione di riforme degli anni Novanta – e che approdano al disegno di legge sul salario minimo come climax di una parabola discendente. L’impoverimento di cui parla Balzano non si riduce alla sola stagnazione salariale occorsa negli ultimi trent’anni – a colpi di «interventi, tagli, attacchi, imposti da istituzioni sovranazionali come l’Unione Europea, la BCE e non solo: implementati zelantemente da una classe politica nazionale completamente asservita o ignorante» – ma che investe tutto il piano dei diritti e delle tutele. In un contesto in cui il potere politico e contrattuale dei lavoratori (l’offerta) è debole ed è la domanda a farla da padrona (sic!), il salario minimo diventa una zavorra e non il trampolino per il rilancio delle retribuzioni oltre l’ipotetica soglia dei 9 euro. Ma cos’è che ha avvelenato il mondo del lavoro? Quali sono state le scelte che hanno degradato uno scenario inizialmente vantaggioso, dove la popolazione lavorativa era orientata alla piena occupazione secondo i dettami costituzionali (garanzia di libertà e dignità della vita)? E soprattutto: perché il legislatore, campione di una democrazia rappresentativa, così come pure il sindacato, si è lasciato asservire dalle logiche del libero mercato?
Secondo Balzano sono due le ragioni: una strutturale e un’altra sovrastrutturale, l’una propedeutica all’altra. La prima attiene prettamente alla sfera economica: l’abbandono politiche espansive e indirizzate alla piena occupazione, la sostituzione graduale di un modello di impresa votato all’alta qualità, alla professionalizzazione dei propri lavoratori con un sistema caratterizzato da un approccio produttivo a bassissimo valore aggiunto, animato da una forza lavoro priva di diritti e tutele. Quello del lavoro è un mercato e, in quanto tale, segue le logiche di qualsiasi altro tipo di mercato. «E il mercato, da che mondo è mondo, si regola mediante l’intersezione di domanda (o domande) e offerta (o offerte) di lavoro: se c’è troppa offerta di lavoro succede quello che accade in qualsiasi altro mercato, crolla il prezzo dei beni offerti (in questo caso del lavoro) e il potere contrattuale del produttore dei beni medesimi (rappresentati nel mercato del lavoro dai lavoratori)». Una dinamica neoliberista che avvantaggia multinazionali e grandi imprese che potranno godere di manodopera basso costo e che le politiche nazionali avallano per rendersi competitive nel mercato globale, abbassando le tassazioni e destrutturando lo Stato sociale. Da qui deriva la seconda causa, quella sovrastrutturale: la precarizzazione del lavoro, un tema «davvero rilevante se si vuole comprendere il reale problema delle retribuzioni in questo paese» . La precarizzazione del lavoro, sostiene analiticamente Balzano, risponde a scelte principalmente economiche (e dunque strutturali) compiute a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, quando «i cedimenti culturali della sinistra e del sindacato hanno contribuito alla creazione di un nuovo ambiente e del nuovo maledetto corso». L’abdicazione alle politiche di sacrifici e austerità da parte del sindacato e della politica – per cui l’autore cita le parole di Luciano Lama di un’intervista risalente al 24 gennaio 1978 e le “Conclusioni al Convegno degli Intellettuali” di Enrico Berlinguer del 15 gennaio 1977 – dimostrano «che le questioni del lavoro non possano essere slegate da logiche di potere, di equilibrio tra poteri nel paese, e dunque che siano inscindibilmente connesse al funzionamento della democrazia». Quindi a essere in pericolo non è solo quel che resta della dignità e libertà del lavoratore, ormai ridotta all’osso, ma anche il funzionamento degli stessi dispositivi democratici costituzionalmente definiti. E la politica e il sindacato, preposti alla tutela dei lavoratori e delle lavoratrici, vengono per questi motivi messi sotto processo, accusati di miopia, di mancanza di vista acuta e sguardo prospettico che, invece, nella gloriosa stagione delle lotte per i diritti, servirono ad approdare a grandi conquiste e formare una vera cultura del lavoro. Riferendosi in particolare al sindacato: «In tutta onestà […] chi oggi professa di voler rappresentare le istanze del lavoro assume purtroppo un atteggiamento di mera difesa, rinunciando completamente alla rivendicazione, e – spesso complice di scelte nemiche del lavoro e del suo popolo – per dolo o per colpa finisce per danneggiarli ulteriormente». L’autore esprime autentico «disprezzo» per «parte del mondo sindacale italiano», come pure per «quasi tutta la sedicente sinistra», accusati di aver «tradito» la causa dei lavoratori sposando le politiche neoliberiste. Ma soprattutto Balzano rimarca «l’assoluta ipocrisia di una sedicente sinistra che, tradendo ciò che subdolamente professa di proteggere, erode da decenni le protezioni poste a tutela delle donne e degli uomini del lavoro».
In questo senso, puntare sulla legge sul salario minimo oppure sulla contrattazione collettiva «non ha alcun senso se non si tiene conto del contesto nel quale vengono dispiegate le dinamiche di potere tra capitale e lavoro». In Italia l’intervento del legislatore ingesserebbe la contrattazione collettiva. Un salario minimo fissato per legge, spiega Balzano, costituirebbe un argomento utilissimo alle controparti datoriali in sede di contrattazione: «[…] se per garantire un’esistenza libera e dignitosa sono sufficienti 9 euro l’ora (se va bene!) fissati dallo Stato, perché concederne di più?». La misura, quindi, si rivela rischiosa per due motivi. Il primo risiede nel fatto che il salario minimo indicato per legge potrebbe comportare nel tempo il crollo di tutti i livelli retributivi al di sopra della soglia individuata: «Il rischio è anche quello di determinare una delegittimazione profondissima della contrattazione collettiva nel paese, spostando il focus dalle relazioni sindacali alla determinazione legale dei minimi retributivi. Il salario minimo legale […] ha un senso solo che affiancato al rafforzamento della contrattazione collettiva […] in un sistema nel quale la contrattazione collettiva è ben strutturata, le rappresentanze dei lavoratori sono forti e autorevoli, e dunque in grado di determinare ottimi livelli salariali, in coerenza con il dettato costituzionale. In un sistema siffatto, infatti, il salario minimo legale costituirebbe uno slancio in generale e, soprattutto, andrebbe a correggere i salari di quei settori (marginali e decisamente circoscritti) nei quali la contrattazione collettiva non funzioni, per assenza o debolezza dei rappresentati dei lavoratori». Ma anche nel caso di una legge per il rafforzamento della contrattazione collettiva, ciò che strutturalmente è necessario «è una politica economica che dia slancio al potere politico dei lavoratori, una politica che sia autenticamente espansiva».
La seconda ragione addotta dall’autore è che «attribuire alla politica il compito di determinare il salario minimo per legge significa firmare una cambiale in bianco ai partiti, alla classe dirigente del paese, alle forze politiche che in questi trent’anni abbiamo lucidamente visto all’opera», gli stessi poteri che «hanno svenduto la nostra sovranità economica e monetaria al fine di costringere il paese all’austerità, fatto crollare il potere contrattuale delle classi lavoratrici e, indebolitele, al punto da inibirne la resistenza, hanno inflitto il colpo di grazia precarizzando a morte ciascuno di noi».
Nella sua arringa contro un certo tipo di corpi intermedi, Balzano delinea il profilo del vero sindacato: che sia «forte, autorevole, serio, rappresentativo», che abbia alle spalle «una comunità del lavoro florida, coesa, consapevole» e che operi in un contesto «nel quale l’offerta di lavoro ha un gran peso e dunque anche il potere politico delle persone che rappresenta»; un sindacato «conscio dei legami che intercorrono tra le persone che rappresenta e che oggi sono in pericolo per l’emergere di una serie impressionante di fenomeni che tendono a reciderli» e che sia «tecnicamente impeccabile e animato da una visione del lavoro, ma soprattutto della società». Insomma, Balzano nemmeno troppo velatamente auspica il ritorno a quel pansindacalismo che un tempo eccedeva i confini del diritto del lavoro e nel quale i lavoratori erano in grado di riconoscersi per affrontare le questioni cruciali per la vita del Paese.
Ma fuori di idealismo, resta il fatto che il salario minimo, la misura che proprio il sindacato «forte, autorevole, serio, rappresentativo» non avrebbe avuto bisogno di sostenere, così come una sinistra coerente con i suoi principi fondativi, è l’ennesima ricetta che si ritorcerà contro i lavoratori, cartina di tornasole di un sistema debole e asservito a logiche di spoliticizzazione della cosa pubblica. Il lavoro deve tornare allo Stato. Anzi: deve tornare a sorreggere lo Stato, così come prescritto dalla Carta costituzionale. I lavoratori sono il tessuto nervoso di questo organo complesso e se depotenziati, ne risentirà l’intero organismo. E a nulla servono medicamenti galenici per alleviare in superficie una ferita ben più profonda e destinata a infettarsi. La soluzione è radicale, per cui la pars construens coincide con la destruens: «Distruggere tutto, abbattere tutto quanto fatto a partire dalla fine del compromesso tra capitale e lavoro […] È difficilissimo e il costo sarà pesante, ma è imprescindibile un recupero di politiche economiche, monetarie e fiscali espansive, indirizzate alla piena occupazione, esattamente come la nostra Costituzione impone. Inoltre, lo è la redistribuzione della ricchezza nel paese attraverso una imposizione fiscale davvero equa e progressiva, che abbatta le concentrazioni di ricchezza che forniscono poteri smisurati a chi riesce conseguentemente a influenzare il decisore pubblico, e che punti sullo Stato sociale per restituire democrazia, dignità e potere contrattuale alle masse».
L’approccio di Savino Balzano è quantomeno temerario in tempi di timide schermaglie e velate allusioni. Con un linguaggio tagliente, asciutto e a volte ironico, non indulge in panegirici teoretici per sublimare fatti di pura contingenza. L’analisi è suffragata da un sostanzioso corpus di dati e riferimenti che egli stesso (in alcuni passaggi) invita il lettore a verificare per dare contezza di un’argomentazione controcorrente e a tratti spietata. Nel complesso sembra quasi che voglia rifarsi al vecchio detto del dito e della luna, suggerendo di diffidare della naturale propensione ad affidarsi acriticamente ai “giusti della Storia”. «La chiave di volta è nella capacità dei lavoratori di pretendere ciò che spetta loro» e «solo il mondo del lavoro può salvare il mondo del lavoro». L’invito, quindi, è a tornare a riappropriarsi di una coscienza che sia veramente collettiva, ricostruire da zero una cultura del lavoro – un tempo realmente efficace – che è andata perduta un po’ per indolenza, per una propensione all’affidarsi e al delegare, un po’ perché scientificamente polverizzata dalla mano (nemmeno troppo) invisibile dei mercati e delle politiche. Come rilevato da Livia Undiemi nella prefazione, il vigore della sua argomentazione è contaminato da «una certa nostalgia dei tempi che furono», ma di certo prevale «l’interesse a trasmettere ai più giovani un messaggio forte e chiaro: lottare, di nuovo, per vivere dignitosamente con salari adeguati, rifiutando di arrendersi all’idea del reddito minimo di sopravvivenza come alternativa accettabile».
Elettra Raffaela Melucci
Titolo: Il salario minimo non vi salverà
Autore: Savino Balzano
Editore: Fazi Editore – Collana Le terre
Anno di pubblicazione: 2024
Pagine: 168 pp.
ISBN: 979-12-5967-504-0
Prezzo: 12,00€