Ci si interroga sulle cause dei fenomeni definiti ”abbandono del lavoro” e working poor. Una delle chiavi di lettura è certamente da ricercare in Italia nella drammatica perdita del potere d’acquisto del lavoro dipendente.
Sono i dati dell’Istat che evidenziano come negli ultimi trenta anni i prezzi siano cresciuti per tre volte rispetto alle retribuzioni, anche in conseguenza della disastrosa gestione dell’introduzione dell’euro nel 2002, e di politiche contrattuali rivelatesi inadeguate. E, oggi, con un fiammata inflazionistica del 4,8% – dovuta fondamentalmente alla crescita esponenziale dei prezzi del gas e dell’elettricità, conseguente alla guerra in Ucraina, anche se un contributo è venuto dalla mini-ripresa post-lockdown della nostra economia soprattutto per gli eco-bonus in edilizia – come nella fiaba di Andersen “il re è nudo”.
“Negli ultimi trent’anni di globalizzazione accelerata, tra il 1990 e oggi – secondo il Censis nel suo ultimo Rapporto – l’Italia è l’unico Paese Ocse in cui le retribuzioni medie lorde annue sono diminuite (…) Lavorare in Italia rende meno rispetto a trent’anni fa e siamo l’unica economia avanzata in cui ciò è avvenuto”. Nei nostri principali partners/competitors in Europa, Francia e Germania, le retribuzioni sono cresciute rispettivamente del 31,1 per cento e del 33,7 per cento.
Nell’ultimo trentennio con gli accordi triangolari di politica dei redditi, in particolare del 1992 e del 1993, è stata archiviata la scala mobile, diminuita l’inflazione e quasi del tutto eliminato il conflitto sociale, contribuendo all’ingresso del Paese nell’euro, con un ruolo di tipo istituzionale delle grandi centrali sindacali e datoriali.
Nel contempo, però, le retribuzioni sono state erose nel loro potere d’acquisto, la flessibilità è aumentata e le tutele del lavoro sono diminuite, mentre il sistema produttivo che un tempo poggiava sulla svalutazione competitiva, ha perseguito dopo l’entrata nell’euro la riduzione salariale, generando i fenomeni dell’abbandono del lavoro e di quello povero.
La soluzione indicata per far crescere i salari, quella della contrattazione aziendale in cui correlare retribuzioni e produttività, ha il limite nella bassa diffusione di tale livello contrattuale, con il risultato che nella maggioranza delle imprese, specie nel nostro Mezzogiorno, si continuerà a perseguire la competitività sui mercati grazie ai bassi salari, sovente in regime di dumping sociale, quando non addirittura in regime di lavoro irregolare.
E allora, anche a fronte degli attuali difficili rapporti tra Confindustria e sindacati, a loro volta divisi, con la Cgil che ha rilanciato l’ipotesi di unità sindacale sperando di capitalizzare in termini di egemonia una legge su rappresentanza, rappresentatività e contrattazione collettiva, l’unica strada per contrastare le basse retribuzioni e, con esse, la svalorizzazione del lavoro, appare l’approvazione, finalmente, di una legge per introdurre anche in Italia, come del resto in 21 su 27 Paesi europei, il salario minimo, da ritenersi non solo soglia inderogabile sotto il profilo retributivo per la contrattazione collettiva e strumento di eliminazione del “contratti-pirata”, ma anche sostegno alla crescita salariale.
Spesso si dice “ce lo chiede l’Europa”, ebbene con l’approvazione della recente direttiva sul salario minimo legale, l’Ue sollecita anche l’Italia a superare i ritardi sul piano dei minimi retributivi attraverso una legge.
Riuscirà il Parlamento nell’ultimo scorcio di legislatura ad evitare veti sindacali e confindustriali e a introdurre questo fondamentale diritto sociale anche nel nostro Paese? “Ai posteri l’ardua sentenza”.
Maurizio Ballistreri, Professore di diritto del lavoro nell’Università di Messina, Presidente Istituto di Studi sul Lavoro