Negli ultimi anni vi è stato un grande recupero della contrattazione nazionale di categoria. Potrà sembrare strano, ma ciò è avvenuto in seguito all’apertura del dibattito sul salario minimo legale, a cui i sindacati hanno contrapposto l’estensione erga omnes dei contratti nazionali, attraverso procedure volte ad accertare quali dei contratti esistenti siano da considerare stipulati da organizzazioni comparativamente più rappresentative sul piano nazionale; ciò allo scopo di ripulire il mercato dai c.d. contratti pirata. In questa richiesta vi è molta faciloneria, come se fosse semplice promuovere una legge sulla rappresentanza che aggiri i vincoli appostati “in sonno’” nell’articolo 39 Cost. In più traspare una convinzione tutta da dimostrare: ovvero che attraverso le regole previste in sede legislativa risulterà evidente la maggiore rappresentatività delle strutture di categoria appartenenti alle confederazioni storiche. E’ comunque abbastanza improbabile che in questo scorcio di legislatura vi siano le condizioni per sciogliere nodi così intricati, sia in direzione di una soluzione erga omnes, sia della istituzione del salario minimo.
Per quanto riguarda il primo aspetto, si frappongono al suo raggiungimento delle difficoltà giuridiche e pratiche per comprendere le quali basterebbe riflettere sul fatto che il Testo unico sulla rappresentanza, solennemente concordato tra le parti sociali, giace inapplicato proprio per la difficoltà di acquisire gli elementi fondativi dell’operazione, nonostante che si operi in un contesto negoziale che alla fine rimane tuttora retto da un unico principio fondamentale: quello del reciproco riconoscimento. Figurarsi se la complessità di contare le deleghe e i voti espressi nelle elezioni delle RSU finisse per chiamare in causa la magistratura. Quanto al salario minimo, stando ai livelli orari che sono circolati, vi sarebbe un incremento del monte retribuzioni compreso tra i 4 e i 5 miliardi, pur secondo le stime più caute. Se qualcuno pensasse che ciò potrebbe essere l’effetto di una legge, questo stesso avrebbe bisogno di un amico (come dice la canzone) che lo riportasse alla realtà.
Del resto, il sistema tiene. Lo dimostrano i dati desunti dal XX Rapporto del CNEL. “Utilizzando la media dei dati mensili relativi all’anno 2020, si può affermare che i primi 5 CCNL maggiormente applicati coinvolgono il 25% dei lavoratori, i primi 16 CCNL maggiormente applicati coprono il 50% dei lavoratori, i primi 54 CCNL maggiormente applicati riguardano il 75% dei lavoratori. I restanti 879 CCNL meno applicati riguardano il restante 25% dei lavoratori”. Sarebbe il caso consolidare l’esperienza del codice unico, come proposto dal CNEL e recepito dalla legge. Non c’è dubbio, tuttavia, che nelle politiche dei sindacati il contratto nazionale è tornato in auge e si collocherà ancora di più al centro delle relazioni industriali per effetto del ritorno improvviso dell’inflazione, il cui recupero – almeno come punto di riferimento – sulle retribuzioni è affidato alla contrattazione nazionale. Certo, in altri tempi si era fatto affidamento sul rapporto tra salari e produttività, sulla retribuzione di risultato, anche attraverso importanti agevolazioni fiscali che rendevano conveniente sia per le imprese che per i lavoratori la c.d. contrattazione di prossimità.
Nelle intenzioni dei promotori, sarebbe stato questo nuovo modello di contrattazione a fornire una risposta alle esigenze di un maggior reddito, nel contesto di uno scambio con una migliore qualità del lavoro, laddove il risultato potesse essere misurato dall’acquisizione degli obiettivi stabiliti. Che cosa si può dire di tale esperienza? Il Ministero del Lavoro ha pubblicato un Report sul deposito, fino al 15 marzo scorso, dei contratti di prossimità (aziendali e territoriali) riguardanti, oltre ad altre tipologie, la detassazione dei premi di risultato e della partecipazione agli utili dell’impresa: in sostanza un fiore all’occhiello in bella mostra nell’abito delle grandi occasioni.
Alla data del 15 Marzo dell’anno in corso, 6.997 <depositi di conformità> si riferiscono a contratti tuttora attivi sul complesso dei 70.157 contratti depositati. Dei contratti tuttora attivi (6.997), 6.097 sono riferiti a contratti aziendali e 900 a contratti territoriali. Dei 6.997 contratti attivi, 5.504 si propongono di raggiungere obiettivi di produttività, 4.169 di redditività, 3.550 di qualità, mentre 878 prevedono un piano di partecipazione e 4.141 prevedono misure di welfare aziendale. Prendendo in considerazione la distribuzione geografica delle aziende che hanno depositato i 70.157 contratti ritroviamo che il 75% è concentrato al Nord, il 17% al Centro il 8% al Sud. Una analisi per settore di attività economica evidenzia come il 60% dei contratti depositati si riferisca ai Servizi, il 39% all’Industria e il 1% all’Agricoltura. Se invece ci si sofferma sulla dimensione aziendale otteniamo che il 51% ha un numero di dipendenti inferiore a 50, il 34% ha un numero di dipendenti maggiore uguale di 100 e il 15% ha un numero di dipendenti compreso fra 50 e 99. Per gli 6.997 depositi che si riferiscono a contratti tuttora attivi la distribuzione geografica, è la seguente: 71% Nord, 19% Centro, 10% al Sud. Per settore di attività economica abbiamo 59% Servizi, 40% Industria, 1% Agricoltura. Per dimensione aziendale otteniamo 47% con numero di dipendenti inferiore a 50; 37% con numero di dipendenti maggiore di 100; 16% con numero di dipendenti compreso fra 50 e 99. Analizzando i depositi che si riferiscono a contratti tuttora attivi abbiamo che il numero di Lavoratori beneficiari indicato è pari a 2.176.574, di cui 1.647.509 riferiti a contratti aziendali e 529.065 a contratti territoriali. Il valore annuo medio del premio risulta pari a 1.518,48 euro, di cui 1.659,73 euro riferiti a contratti aziendali e 746,87 euro a contratti territoriali. Quanto alla decontribuzione per le misure di conciliazione dei tempi di vita e lavoro dei dipendenti, alla data del 15 Marzo 2022 sono stati depositati 5.072 contratti di cui 3.328 corrispondenti a depositi validi anche ai fini della detassazione e 1.744 corrispondenti a depositi validi solo ai fini della decontribuzione. 855 depositi si riferiscono a contratti tuttora “attivi”, di cui 428 corrispondenti a depositi validi anche ai fini della detassazione e 427 corrispondenti a depositi validi solo ai fini della decontribuzione. Con riferimento all’incentivo fiscale con procedura automatica introdotto, nella forma di credito d’imposta utilizzabile esclusivamente in compensazione, per talune spese di formazione del personale dipendente nel settore delle tecnologie previste dal “Piano Nazionale Industria 4.0” alla data del 15 Marzo 2022 sono stati depositati 4.322 contratti. Prendendo in considerazione la distribuzione geografica delle aziende che hanno depositato i 4.322 contratti, la percentuale maggiore, pari al 39% è concentrata al Nord, il 27% al Centro, il 34% al Sud dove emergono i dati della Campania che presenta il numero maggiore di contratti depositati su tutto il territorio nazionale. Quanto al settore di attività economica, il maggior numero dei contratti depositati riguarda aziende operanti nel settore Servizi 61%; a seguire l’industria col 38% e l’agricoltura con 1% contratti depositati.
Il report, poi, dà conto degli effetti di altre norme di incentivazione di particolari forme retributive che innovano rispetto alla natura classica del rapporto di lavoro dipendente: quella di mettere a disposizione del datore il proprio tempo, per introdurre degli obiettivi e dei risultati nel sinallagma contrattuale. Le statistiche nostrano una sostanziale tenuta della contrattazione di prossimità finalizzata a specifici obiettivi produttivi, misurabili attraverso il conseguimento del risultato. Può sembrare un paradosso; ma in questi dati troviamo la conferma della convinzione che, sul posto di lavoro, operino strutture sindacali più disponibili ed innovative di quelle nazionali.
Giuliano Cazzola