Primi anni ’60. Da studente universitario ero iscritto alla sezione bolognese dell’UGI, l’associazione di sinistra negli organismi rappresentativi di allora. Era un militante impegnato. Partecipavo a quasi tutte le riunioni (sempre egemonizzate da un giovane Claudio Sabattini) che si svolgevano dopo cena alla Casa della Cultura, a un tiro di schioppo dalle Due Torri. Per un lungo periodo l’argomento dei dibattiti era un Piano per la riforma dell’Università, presentato dall’allora ministro Dc Luigi Gui (a metà degli anni ‘70 fu coinvolto nello scandalo Lockheed ma alla fine fu assolto). I compagni che intervenivano criticavano tanto aspramente questo piano che ritenni doveroso documentarmi. Me ne procurai una copia (allora non c’era Internet) e lo lessi, senza riuscire a trovare argomenti che favorissero – come si diceva nelle riunioni – il disegno neo-capitalista che si stava imponendo in Italia.
Ovviamente mi sentivo un minorato; così, una sera, ruppi gli indugi e chiesi a un ragazzo, che mi era seduto vicino, perché ce l’avessimo tanto col Piano Gui. Il mio interlocutore mi guardò con l’aria di chi pensa “che cosa ti ho fatto di male?”. Poi prese coraggio e mi rispose: “Il Piano Gui vuole l’efficienza della scuola, ma non la scuola efficiente”’. A fronte di tale lapidaria sicurezza, non osai chiedere di più. Sono passati quasi sessant’anni da quella sera nel corso dei quali ne ho viste e fatte – come si diceva una volta – di tutti i colori; ma ho conservato il medesimo candore di allora, tanto che anche adesso rimango interdetto quando sento o leggo frasi che sembrano soltanto dei giochi di parole. Anche in queste settimane, afflitte dall’incubo del coronavirus, ho avuto tante volte quell’antica sensazione. “Cambio di paradigma”; “nuovo modello di sviluppo”; “niente sarà come prima”; “è urgente un altro New Deal”. In qualche caso il discorso si articola maggiormente e si spinge fino a ribadire: “cambiare le politiche e le strategie di sviluppo è la condizione necessaria per creare nuovo lavoro, di fronte a processi di trasformazione dei bisogni e dei mercati che non sopporteranno il semplice riperpetuarsi dei modelli di consumismo fin qui conosciuti”.
E allora? In questo turbinio di antiche novità (Fausto Bertinotti, in un articolo, ha rievocato il Piano del Lavoro presentato dalla Cgil nel 1950), gli economismi della sinistra politicamente corretta – che prendono le distanze dalle prassi che loro definiscono “neoliberiste” (indicate come responsabili di tutti i nostri guai) e che criticano la globalizzazione – hanno in mente di ritornare alla politica industriale della seconda metà degli anni ’70, quando lo Stato pretendeva di indicare gli obiettivi dello sviluppo economico e delle relative strategie produttive, subordinando ad essi la concessione degli incentivi e dei finanziamenti pubblici. Anche il sindacato è favorevole all’intervento dello Stato nell’economia (una nuova Iri?), come se ciò bastasse a rimettere in moto la macchina, senza prendere in considerazione l’altra faccia della medaglia: il rischio che tocchi allo Stato di accollarsi gli eventuali fallimenti a scapito dei cittadini contribuenti.
Anche dal mondo imprenditoriale arrivano segnali che sembrano non tener conto della complessità della situazione; come se bastasse riaprire le fabbriche per ripartire. Ma esiste ancora un mercato dove l’offerta (i prodotti) sia in grado di incontrare un’adeguata domanda? Questo è il punto. E qui sta la differenza con il Piano Marshall (altro fantasma evocato nelle sedute spiritiche del governo), non tanto per quanto riguarda gli strumenti e le risorse: oggi la Ue e la Bce ne mettono a disposizione degli Stati una quantità molto più consistente di quella che, nel dopoguerra, giunse dall’altra sponda dell’Atlantico. E’ la situazione che è diversa. Alla fine della seconda guerra mondiale vi erano Paesi sconfitti e ridotti in macerie; ma vi erano anche Paesi vincitori, che non avevano avuto conflitti sul proprio territorio. Poi si profilava un mercato di dimensioni internazionali di beni di consumo durevoli (a cominciare dall’automotive, come si dice adesso). Per vendere era sufficiente mettersi in condizione di produrre ciò che il mercato chiedeva. Oggi, tutti i Paesi sono nella condizione degli sconfitti. E’ urgente ricostruire un mercato, sulla base di un progetto necessariamente sovranazionale se non addirittura internazionale, verso il quale orientare le risorse. Un nuovo modello di sviluppo può prendere vita solo da una concertazione a questo livello.
Ma rimane da risolvere un altro problema. Il modello di sviluppo del dopoguerra era la base economica di un’alleanza politica tra Stati che condividevano i medesimi principi ed obiettivi. Oggi, se le elezioni americane non cambiano l’indirizzo della presidenza, non è alle viste una leadership in grado di guidare quello che una volta era chiamato il mondo libero. Se l’Europa non compie un salto di qualità, anche sul terreno dell’integrazione istituzionale ed economica, corre il rischio di un processo di balcanizzazione, in cui ogni Paese è pronto a vedersi al migliore offerente.
L’altro aspetto da considerare è il seguente: se l’apparato produttivo riuscirà a sopravvivere alle enormi difficoltà di una fase di transizione. i processi di automazione e di innovazione tecnologia – grazie alla diffusione dell’intelligenza artificiale – saranno accelerati, a causa di una considerazione banale: i robot non vengono contagiati dai virus; il lavoro umano sì. I sindacati devono aspettarsi l’incremento di massicci investimenti labour saving (a risparmio di lavoro) che renderanno ancora più ardua la ripresa dell’occupazione. Una forma di compensazione si verificherà per l’esigenza delle imprese di avere a disposizione filiere più corte e meglio controllabili per non trovarsi, all’improvviso, senza forniture perché dall’altra parte del globo è scoppiata un’epidemia. Il progredire dell’automazione renderà (se non marginale), tutt’altro che prioritaria, la ricerca di manodopera a costi inferiori. Sempre che il Paese riesca a risparmiarsi il contagio volontario di un’epidemia di “mal francese”: ovvero la riduzione per legge dell’orario di lavoro a parità di salario. Nella logica socratica del “tanto tuonò che piovve”.
Giuliano Cazzola