Ho molto apprezzato il saggio di Franco Liso ‘’Appunti per un profilo di Gino Giugni dagli anni ’50 allo Statuto dei lavoratori’’, pubblicato sull’ultimo numero di Adapt. Di Giugni il prof. Liso è stato un allievo, uno stretto collaboratore (fu persino sottosegretario al Lavoro) ed un amico. Ha certamente più titoli ed argomenti di me per poter ricordare la memoria di un grande giuslavorista che è stato il fondatore del moderno diritto sindacale. Credo tuttavia doveroso, da parte mia, portare un contributo nel dibattito non solo per i rapporti che mi hanno legato per decenni a Giugni, ma per i sentimenti di gratitudine di cui gli sono debitore, dal momento che fu lui, da ministro, a promuovere, nel 1994, la mia nomina prima a componente della Commissione di vigilanza sui fondi pensione, poi, a dirigente generale del Dicastero del Lavoro, comandato a presiedere il Collegio dei Sindaci del neonato Inpdap, l’ente di previdenza unificato dei dipendenti pubblici. Lì cominciò la mia carriera all’interno dei maggiori Istituti previdenziali che si concluse, nel 2007, dopo aver svolto per cinque anni il ruolo di presidente del Collegio dei sindaci dell’Inps.
Ma non è di me che si deve parlare, bensì di uno dei più grandi giuslavoristi del secondo dopoguerra, che seppe unire all’elaborazione teorica, una grande capacità di iniziativa politica legando il suo nome ad alcuni dei più importanti provvedimenti legislativi (e non solo) del diritto del lavoro. Socialista riformista (in quanto tale vittima di un attentato delle BR), per diverse legislature fu senatore, presidente della Commissione Lavoro di Palazzo Madama, poi ministro della Repubblica del Governo Ciampi e promotore del Protocollo del 1993 che tanta influenza ha avuto nel campo delle relazioni industriali e soprattutto nella definizione di una politica salariale in senso antinflazionistico che ha consentito, insieme ad altri fattori, all’Italia di entrare fin dall’inizio nel club della moneta unica. In pratica, non c’è un solo evento importante nella politica del lavoro del secolo scorso che non abbia avuto Gino Giugni come ideatore e protagonista. Giugni viene ricordato come ‘’il padre dello Statuto dei lavoratori’’ del 1970, anche se in quel tempo era soltanto capo dell’Ufficio legislativo prima del ministro Giacomo Brodolini, poi, dopo la sua morte, di Carlo Donat Cattin. In questo arco di tempo fu a fianco dell’esuberante ministro democristiano durante la vertenza per il rinnovo del contratto dei metalmeccanici del 1969 (il mitico ‘’autunno caldo’’), in cui vennero gettate, in via contrattuale, le basi di quei diritti che trovarono pochi mesi dopo ampia sanzione legislativa nella legge n.300.
Quella legge fondamentale è legata per sempre al nome di Giugni perché sue furono le intuizioni che diedero a quel provvedimento un carattere fortemente innovativo per la cultura giuridica – e non solo – di quei tempi, grazie ad un’impostazione che affidava il riconoscimento dei diritti dei lavoratori ad un ruolo promozionale dell’azione del sindacato, introducendo nel tradizionale diritto positivo italiano modelli propri della common law e dell’esperienza americana che tanto aveva inciso sulla sua formazione, fin da quando, appena laureato, aveva avuto l’opportunità, insieme a Federico Mancini e a Giorgio Bernini, di una permanenza di studio negli Usa. Il viaggio sulla motonave Vulcania cementò per sempre la loro amicizia. Di Giugni vanno ricordati altri contributi importanti, come ad esempio, l’aver diretto la commissione tecnica che elaborò la riforma del tfr all’inizio degli anni ’80, sventando lo svolgimento di un referendum abrogativo che avrebbe, con la sua approvazione, imposto un onere insostenibile alle imprese. Oppure l’ultimo impegno che assolse con la solita lucidità e l’infinita cultura giuridica, quando il primo Governo Prodi gli chiese di presiedere una commissione composta dai migliori giuristi italiani, tra cui Massimo D’Antona e Marco Biagi, che elaborò, all’inizio del 1997, una relazione sulla riforma della contrattazione collettiva colpevolmente ignorata dalle parti sociali, benché le proposte che vi erano contenute prefigurassero già il disegno tracciato (molti anni dopo) dai più recenti accordi interconfederali, fino a trovare il dovuto riconoscimento nel recentissimo rinnovo – finalmente unitario – del contratto dei metalmeccanici.
Ma il merito principale del Maestro è quello di aver fondato il moderno diritto sindacale, mediante un’operazione di carattere culturale che ebbe il senso di una vera e propria rivoluzione copernicana. Nel corso degli anni ’50 il diritto sindacale era dominato da quelle che furono chiamate le ‘’speranze deluse’’. La Costituzione aveva risolto le questioni cruciali della rappresentanza e della rappresentatività sindacale e dell’efficacia erga omnes dei contratti di lavoro nel testo dell’articolo 39 che però giaceva, per tanti motivi, inattuato nonostante che ogni Ministro del lavoro cercasse di sbloccare la situazione di stallo con un proprio disegno di legge. Nel 1960 – la centralità di questa pubblicazione è stata ricordata anche da Franco Liso – Gino Giugni – a soli 33 anni – diede alle stampe il libro ‘’Introduzione allo studio dell’autonomia collettiva’’ da cui scaturirono, grazie all’applicazione della teoria degli ordinamenti giuridici al diritto sindacale, una nuova visione e una diversa interpretazione della materia che doveva essere accettata e studiata per quello che la realtà e l’esperienza avevano espresso e non più nella sterile ricerca di un ‘dover essere’ dimenticato ed impraticabile.
Scriveva Giugni a proposito dell’attività contrattuale parole destinate a cambiare la storia: “un’attività che si è svolta nel precario contesto della legge comune dei contratti, è risultata viziata da mille insufficienze, ma è nondimeno costitutiva di un valido patrimonio di esperienze di ‘diritto vivente’”. Di Giugni si potrebbe parlare a lungo senza mai esaurire l’argomento. Vale la pena, tuttavia, nei tempi che corrono, soffermarsi su di un ‘botta e risposta’ che il grande giurista ebbe con uno studente, durante una conversazione sui temi del lavoro. Al giovane che gli chiedeva: “Lei sta dunque affermando che i fondamenti etici della Costituzione rimarranno invariati?”, Giugni rispose: “La sua domanda contiene in sé un’efficace risposta: i fondamenti etici non verranno variati. Fin tanto che la Costituzione repubblicana del 1948 rimarrà in vigore, noi avremo la certezza che i suoi principi etici funzionano e, soprattutto, che hanno un rilevante grado di effettività. Nel momento in cui tali fondamenti muteranno – insieme
alle corrispondenti istituzioni – ci troveremo di fronte a fenomeni ai quali sarò contento di non assistere: mi auguro per voi che non accadano episodi di crisi delle istituzioni tali da mettere in dubbio questi principi etici”. Sono considerazioni, queste, che ci riportano in medias res, a pochi giorni da un referendum che deciderà dell’assetto della Costituzione repubblicana.
Non mi presterò a strumentalizzare le parole di Giugni attribuendo loro un significato che abbia un qualche riferimento con la sfida aperta. Mi limiterò soltanto a fare mio il monito, che Gino ci ha lasciato, a non sottovalutare mai il rapporto che intercorre tra i “principi etici” e le “corrispondenti istituzioni” nella Legge fondamentale del 1948. Chiudo con un ricordo personale, tra i tanti che potrei citare. Quando, come e perché ho conosciuto Gino Giugni. Era la primavera del 1967 (è passato ormai mezzo secolo!). Io facevo parte da un paio d’anni della segreteria della Fiom di Bologna e stavo lavorando alla tesi di laurea in diritto del Lavoro. Saputo che ero un sindacalista Umberto Romagnoli, allora assistente di Federico Mancini, mi aveva dato da svolgere un tema stimolante (“Metodi e forme di risoluzione stragiudiziale delle controversie di lavoro”) raccomandandomi di raccogliere il più possibile dati ed esperienze di fatto. Per me non era facile dedicare molto tempo alla tesi e soprattutto trovare e consultare il materiale necessario (allora non c’era Internet). Soprattutto, non riuscivo a trovare l’idea-forza su cui costruire l’elaborato. Mi dedicai prioritariamente alla stesura di due capitoli: uno relativo all’esperienza dei Collegi dei probiviri; l’altro a quella ormai ventennale (il primo accordo vi era stato nel 1947) della contrattazione interconfederale sulla conciliazione e l’arbitrato nel caso di licenziamenti individuali nell’industria.
Mancava però il trait d’union. Lo trovai leggendo un piccolo libretto “L’evoluzione della contrattazione collettiva nell’industria siderurgica e mineraria”, nel quale Gino Giugni descriveva il processo che, a cavallo tra il 1962 e il 1963, aveva prodotto la svolta della contrattazione articolata. Quel testo mi rimandò alla fondamentale “Introduzione allo studio dell’autonomia contrattuale”. Fu per me come essere folgorato sulla via di Damasco. Mi apparve chiaro il filone conduttore della mia tesi: le controversie, in materia di lavoro, non erano altro se non il proseguimento del negoziato, attraverso la c.d. amministrazione del contratto. Questo divenne il quadro del mio lavoro. Poi gli amici della Cisl di Bologna mi aprirono il loro centro di documentazione dove trovai tutto il materiale che mi serviva (purtroppo non mi era stato possibile reperirlo in Cgil). Ne uscì uno dei lavori più importanti della mia vita, che contribuì ad arricchirmi anche sul piano professionale e che mi procurò ben 12 punti all’esame finale trasformando una carriera universitaria caratterizzata da aurea mediocritas in una laurea a pieni voti.
Ma torniamo a quando, dopo aver letto le sue opere, conobbi personalmente Giugni. L’occasione fu quella di un Convegno nazionale promosso presso l’Ateneo bolognese dai ‘’Comitati d’azione per la giustizia’’ sul tema della conciliazione e l’arbitrato. Essendo Gino Giugni tra i relatori, mi iscrissi e partecipai all’iniziativa. Si pure con il garbo di una discussione tra cattedratici, Giugni si trovò in posizione di netta minoranza. Allora andavano per la maggiore i discepoli di Ugo Natoli, i c.d. costituzionalisti, asserragliati intorno all’attuazione dell’art.39 Cost. e alla giustizia togata e statuale e molto sospettosi nei confronti di quella privata. Era presente anche una delegazione della Cgil, guidata dal vice segretario Arvedo Forni, che pronunciò un discorso sostanzialmente allineato con le posizioni di Natoli. Chi scrive si fece coraggio e chiese di parlare.
Mi diedero la parola poco prima delle conclusioni dei relatori quando i partecipanti erano tornati dal pranzo e stavano tutti nell’Aula Magna. Benché mi fossi qualificato come uno studente, appena iniziai a parlare sciorinai i miei incarichi sindacali e pronunciai un breve discorso – ben argomentato – a sostegno delle tesi di Giugni, sottolineando che la conciliazione e l’arbitrato non dovevano essere affrontati come una via secondaria per fare giustizia, ma come parte integrante dello stesso processo di contrattazione collettiva.
La cosa suscitò un po’ di scalpore nella sala: che un giovane sindacalista della Cgil dichiarasse la sua adesione a quelle idee pericolose era comunque una notizia. Tanto che Giugni – che non era ancora arrivato – venne avvertito dell’episodio e si mise a cercarmi per chiedermi che cosa avevo detto. Poi, chiamato a concludere insieme agli altri relatori citò diverse volte il mio intervento qualificandomi, a bella posta, come segretario della Fiom. Il giorno dopo da Roma qualcuno chiese conto al mio segretario generale della mia linea di condotta. Che altro dire ? Tanti anni dopo il destino volle che io divenissi relatore (per ben 4 letture delle 7 che furono necessarie alla sua approvazione) del c.d. Collegato lavoro (legge n.183/2010), che conteneva diverse procedure di conciliazione e di arbitrato nelle controversie di lavoro. Una disciplina innovativa rimasta sulla carta. Lo statualismo del diritto ha vinto ancora una volta.
Giuliano Cazzola