Se qualcuno avesse avuto ancora dubbi, adesso può tranquillamente toglierseli dalla testa: la nostra premier, forse non sarà più fascista (chissà…), ma certamente non è antifascista. Bastava ascoltare o anche leggere il suo discorso di mercoledì scorso alla Camera in cui ha letto degli stralci ben orchestrati del Manifesto di Ventotene scritto da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi e Eugenio Colorni, cioè tre confinati dal fascismo nell’isoletta del mar Tirreno, manifesto che con grande anticipo e molta intelligenza politica disegnava l’idea dell’Europa che sarebbe dovuta nascere, per rendersi conto che Giorgia Meloni con l’antifascismo non ha nulla a che fare. Tanto che ha avuto l’impudenza di mettere alla berlina personaggi che hanno pagato a caro prezzo il loro antifascismo per concludere che quella non è la sua Europa. E meno male, viene da dire, altrimenti Spinelli e compagni avrebbero sbagliato tutto. Ovviamente le opposizioni si sono duramente scagliate contro la premier, la quale tuttavia non ha fatto una piega: la sua Europa è un’altra, anzi non esiste. A meno che non sia una sorta di serva sciocca di Donald Trump, il vero riferimento politico e ideale della Presidente del consiglio.
E a proposito di Donald Trump, bisogna dire che per ora ha perso, o almeno non ha vinto: aveva promesso che avrebbe fatto cessare la guerra in Ucraina in tre giorni e invece ha solo ottenuto un mezzo impegno di Vladimir Putin a una fragile tregua condizionata. Aveva altresì promesso che avrebbe risolto rapidamente la drammatica questione (chiamiamola così…) di Gaza e invece Israele ha ricominciato a bombardare la città già distrutta, provocando centinaia di morti tra cui moltissimi bambini. Insomma, le prime mosse di politica estera del nuovo Capo degli Stati uniti per ora si sono rivelate un mezzo fallimento, tranne forse il suo secondo incontro con Zelensky dopo quello dello Studio Ovale in cui il presidente americano si è “divertito” a mettere in estrema difficoltà il leader ucraino: stavolta l’incontro è stato più civile e sembra che Trump abbia accettato alcune richieste di Zelensky a proposito degli aiuti militari di cui Kiev ha bisogno. Sembra, ma non è affatto sicuro.
Anche perché il problema principale si chiama Putin, e finché i due nuovi imperatori non avranno trovato un’intesa (tra loro e con la Cina) sulla spartizione del mondo e sugli affari da condurre più o meno insieme, sarà impossibile arrivare a firmare una vera e propria pace. In Ucraina e in Medio Oriente.
In ogni caso una sorta di negoziato è cominciata e non resta che aspettare per capire se prima o poi (più poi che prima) porterà buoni frutti, almeno nel senso di un cessate il fuoco che faccia risparmiare la perdita di vite umane (si parla di un milione di morti tra ucraini e russi e di decine di migliaia tra i palestinesi).
Ma in ogni caso la strada per la pace sarà lunga e piena di ostacoli, dovuti a una molteplicità di fattori che cominciano con la rivendicazione di Kiev che non accetta di cedere i territori che considera suoi e che però sono stati occupati dalla Russia, che a questo punto non intende mollare. Per non parlare dell’eventuale adesione dell’Ucraina alla Nato, che Putin considera un altro motivo per continuare la guerra, oppure dell’invio di truppe europee nel paese di Zelensky, invio di cui si parla continuamente nella Ue anche se non convince molti degli Stati dell’Unione, a cominciare dall’Italia. Non a caso, in Senato Giorgia Meloni ha bocciato questa ipotesi in modo piuttosto deciso, così come ha respinto la proposta del riarmo europeo su cui sta insistendo la Presidente della Commissione Ursula von der Leyen, la quale ormai sembra un capo di stato maggiore di un esercito che non esiste, visto che non fa altro che insistere nella sua logica bellica: “Prepariamoci alla guerra”, ha detto l’altro giorno. Alla guerra contro chi e con chi, verrebbe da chiederle, ma sarebbe una domanda inutile visto che non lo sa nemmeno lei.
Insomma, il mondo continua a restare diviso come prima, l’Europa pure e l’Italia non ne parliamo. Anzi, parliamone visto che è appena andata in onda l’ennesima spaccatura del fronte progressista tra chi non accetta di sentir parlare di riarmo della Ue (Cinquestelle e Avs) e chi invece si presenta come un tifoso ultrà dei nuovi armamenti (Calenda e Magi) . In mezzo, tanto per cambiare, c’è il Partito democratico. La cui segretaria si è schierata decisamente contro il piano di Ursula ma, dopo essere finita quasi in minoranza a Strasburgo, ha dovuto mediare con la sua minoranza interna. Alla fine ha più o meno vinto lei, nel senso che la risoluzione del Pd dice di no al riarmo, ma è evidente che la battaglia con i cosiddetti riformisti del partito non è finita. Alla prossima occasione, che arriverà quanto prima, sarà di nuovo scontro. Che magari finirà solo con la convocazione di un congresso straordinario – ipotesi già ventilata, anzi minacciata dalla leader – che dovrà scegliere non solo il nuovo segretario, che quasi certamente sarà di nuovo Schlein, ma anche quale debba essere la linea del partito. In politica estera e in quella interna. E sarebbe pure arrivato il momento di farlo questo benedetto congresso, in modo che i democratici possano decidere democraticamente chi sono e cosa vogliono fare da grandi.
Riccardo Barenghi