“Lo faccio per le bollette”. Questa frase eravamo abituati a sentirla nei film americani ambientati tra i ceti più disagiati, con protagonisti disposti a tutto, da lavori umilianti al malaffare, pur di raggranellare i soldi per onorare le scadenze mensili. Nell’espressione venivano riassunte tutte le incombenze, affitto compreso. Un circolo vizioso. Accetto di essere super sfruttato, o di rischiare la galera, perché tutto quel che consumo, dall’acqua all’elettricità, non è mio ma di qualcun altro che me lo concede a pagamento.
Sembrava che un tale contesto vampiresco fosse esclusivo della società statunitense, priva di ammortizzatori, di diritti sindacali, di assistenza sanitaria. Ma ora “lo faccio per le bollette” è diventato linguaggio comune anche da noi, entrando nei dialoghi di pellicole e romanzi, permeando quello che potremmo definire un triste sussulto di neorealismo.
Il vertiginoso aumento del gas e tutti gli altri inusitati rincari stanno facendo esplodere le contraddizioni di un sistema già precario. La guerra e la speculazione sono mostri onnivori, che avanzano di pari passo. Più inflazione e meno lavoro uguale stagflazione. L’indice del disagio sale e diventa rabbia. A San Basilio, quartiere alla periferia di Roma, hanno dato fuoco alle odiate ingiunzioni. Il falò dei debiti.
Siamo in bolletta. Un modo di dire che viene dall’antico uso di affiggere in pubblico la lista dei falliti. Ma ora, ad essere al verde, senza quattrini, è un’intera comunità. Come si fa a redigere un elenco così lungo? Verrebbe da scherzarci sopra.
Arnaldo Fusinato, poeta e patriota risorgimentale, colui che dopo la resa di Venezia agli austriaci scrisse con drammatica enfasi “il morbo infuria/il pan ci manca/ sul ponte sventola/ bandiera bianca”, era un autore prolifico. Ha vergato molti versi, semplici e anche spiritosi, come “Lo studente di Padova”, incentrato sulle disavventure di un giovane che preferisce i bagordi ai libri. Dopo il carnevale arriva la quaresima, i denari di papà sono finiti, però il protagonista della storia non si arrende: “Ma non per questo vi crediate mai/ che egli perda la bussola e il coraggio/ ché lo studente in mezzo a tanti guai/ trova pur sempre di speranza un raggio/ e stuzzica lo spirito e l’ingegno/ per rovesciare della bolletta il regno”.
Impegnare il mantello dall’usuraio non basta e allora è un susseguirsi di stratagemmi: “Ma perché troppo vasto è l’argomento/ a voi basti saper che lo studente/ o bene o male, porta fuori le spese/infin che arrivi il primo dì del mese”.
Magari fossero sufficienti l’umorismo e l’inventiva! Il regno della bolletta non prevede perdoni e scappatoie. La parola, intesa come ordine di pagamento certificato con un bollo, cioè un sigillo o un timbro, ha origini medievali. Ma l’etimologia è latina. Bulla, dalla quale vengono anche le bolle, nel senso di escrescenze esantematiche. Figurativamente, ricorda il vocabolario Castiglioni-Mariotti, significa “un nulla”, un vuoto trasparente, perlucido, come una bolla di sapone. Prima o poi, scoppia.
La bolla d’oro è quella che portavano al collo i giovani patrizi romani fino ai diciassette anni, quando indossavano la toga praetexta. Poi ci sono le bolle papali. E dall’uso antico di bollare, cioè marchiare, i condannati, deriva lo stigma verbale che addita all’infamia, al disprezzo, alla disapprovazione: i traditori sono bollati per l’eternità (Carducci, dizionario Treccani).
Nel gergo dei pescatori, ci informa ancora il Treccani, si dice che i pesci bollano quando, salendo dal fondo per prendere un moscerino, producono sulla superficie liscia un cerchio d’acqua increspata.
Chissà se c’erano intorno al barcone di Loujin. La bimba, di certo, nella sua indicibile agonia non avrebbe potuto farci caso. È morta di sete, tra le braccia della mamma. I genitori non dovevano pagare bollette, non avevano utenze, né una casa alla quale allacciarle. Venivano dalle macerie siriane, in fuga da un conflitto dimenticato.
Arnaldo Fusinato getta in terra con sdegno la penna dell’ironia e riprende in mano quella dello sgomento: “E’ fosco l’aere, il cielo è muto”.
Marco Cianca