Non fa una bella figura la classe politica nella sua affannosa e fin qui vana ricerca del nuovo Presidente della Repubblica. Forse ci si poteva preparare un po’ meglio a questa evenienza, evitando la pantomima imbarazzante cui stiamo assistendo in questi giorni. L’approssimazione con cui viene gestita una partita di fondamentale importanza per il paese fa davvero impressione. Va bene le prime tre votazioni, che vanno a vuoto non avendo alcuno schieramento la maggioranza necessaria per eleggere un presidente in autonomia; ma dalla quarta in poi, non sarebbe stato impossibile risolvere più che degnamente la questione. Al di là delle giustificazioni sul passo indietro che qualcuno poteva fare un po’ prima o su quello di lato che sarebbe spettato a qualcun altro e non è venuto con immediatezza, quello che rimane è solo la conferma che la distanza tra il palazzo e la gente comune si fonda su evidenti ragioni. Non abbiamo mai approvato, anzi abbiamo combattuto la protesta che è stata portata anni fa contro “la casta”, ma certamente in questi giorni i detrattori della politica hanno avuto materia per ripetere, ben più di quanto sarebbe stato lecito, le loro lamentele. Forse non tutti hanno ben presente la percentuale delle persone che non esercitano più il loro diritto di voto e cosa questo significa per la coesione sociale del paese, cui invece tutti affermano di tenere sopra ogni altra cosa.
Ma è dispiaciuto anche come il paese si sia fermato in attesa che le contorsioni dei partiti portassero a un’ intesa sul nome del nuovo presidente. Il tutto mentre la pandemia continua a correre, i rapporti Usa-Ue-Russia sono incandescenti, e le prime frenate dell’economia, alla luce dell’inflazione che cresce, della difficoltà negli approvvigionamenti e dell’impennata dell’energia, iniziano a rivelarsi. Ma tutto, di fatto, si è bloccato: gli appuntamenti sono stati fatti cadere, le riunioni annullate. E questo vale anche per le parti sociali, sindacati e imprese. Le poche riunioni che si sono svolte non hanno certo fatto notizia: come gli incontri tecnici al ministero del Lavoro per il confronto governo-sindacati sulle pensioni di mercoledì, o quello dei vertici di Confindustria col ministro Cingolani di giovedì. In tutta la settimana di veramente rilevante c’è stato solo l’incontro tra il nuovo amministratore delegato di Tim e i sindacati di categoria, fissato da tempo e non rinviato perché Pietro Labriola doveva vedere i sindacati per poi dedicarsi alla definizione del programma industriale del gruppo. Ma in pratica la vita “politica” delle parti sociali è stata sospesa.
Un fatto strano, anomalo, che denota un senso amaro di subalternità delle parti sociali nei confronti della politica. Ora, nessuno vuole mettere in dubbio il primato della politica e il ruolo che questa ha nel paese, ma la vita economica e sociale non può arrestarsi solo perché deputati e senatori non sembrano in grado di scegliere il nuovo Presidente della Repubblica. E i primi a essere colpevoli sono i giornali che hanno dedicato pagine e pagine alle (non) scelte dei grandi elettori, trascurando tutto il resto, fatto salvo solo e forse il mondo dello sport. Ne fa fede quanto è accaduto dopo che il Fondo monetario ha abbassato di ben quattro decimali le prospettive di crescita del Pil in Italia nel corso del 2022, dal 4,2 al 3,8%. Il Corriere della sera ha dato la notizia in un trafiletto nelle pagine economiche, quando non avrebbe fatto male ad aprirci il giornale, tenendo conto che il Fmi in quel modo ci avvertiva che le potenzialità di crescita dell’economia italiana stavano cambiando in peggio e che questo avrebbe comportato dei problemi per tutti noi.
Come rimediare a tutto questo è difficile dirlo. Certo la distanza tra palazzo e società in qualche modo va colmata, o almeno attutita, perché non possiamo rassegnarci a questo vuoto che poi si riempie di acrimonia, apatia, desiderio di rivalsa. Così è la coesione sociale che se ne va a ramengo, in un paese che ha sempre avuto una grande attenzione alla coesistenza civile. Viene in mente una cosa che tanti anni fa disse Vittorio Foa, grande sindacalista, poi grande politico. Come ha ricordato Francesco Lauria in un bel libro che ha dedicato alla storia di Pippo Morelli, Foa disse una volta che un bravo sindacalista dovrebbe almeno una volta alla settimana andare a mangiare a casa a di un operaio, di un lavoratore qualsiasi. Non per parlare di lavoro, della vertenza che magari angustia quel lavoratore e la sua azienda, ma solo per discutere di cose comuni, della sua vita, dei suoi problemi, dei suoi desideri. Per capire e poi saper scegliere bene al momento opportuno. Come fece Winston Churchill quando scese in metropolitana nel pieno della guerra e dai discorsi della gente comune capì cosa il paese si aspettava da lui.
Viene in mente un’altra cosa a questo proposito. Aris Accornero, il grande sociologo che onorò Il diario del lavoro della sua amicizia, quando era giovanissimo giornalista della redazione torinese de l’Unità, fu mandato nel nord del Piemonte a seguire un difficile vertenza che aveva colpito il Cotonificio Val Susa. Per capire cosa stesse accadendo Aris fece una lunga serie di interviste ad altrettante operaie di questa fabbrica e le fece andando a casa di queste lavoratrici, per capire dove e come queste vivevano. E queste interviste, che poi furono pubblicate cinquant’anni dopo in un libro, erano precedute, tutte, da una pagina o due in cui si descriveva la stanza che aveva accolto l’intervistatore. La cucina per lo più, al massimo un’altra camera. Aris ci dette in quel modo una lezione di vita, ci disse che per fare bene un lavoro occorre per prima cosa parlare con le persone e poi vedere e capire dove la gente, queste persone con cui parlare, vivono. Per questo non smettiamo di dire che tutti, e per primi i nostri parlamentari, dovrebbero cercare di parlare tra loro per prima cosa e poi parlare di più con la gente che sono chiamati a governare. Altrimenti non li capiranno e quel vuoto non potrà non crescere pericolosamente.
Massimo Mascini