Due dati. Il primo: nei quarant’anni tra il 1970 e il 2009 — anni di profondissima trasformazione tecnologica ed economica – l’industria italiana ha perso circa un milione di posti di lavoro, l’agricoltura un altro milione, ma i servizi ne hanno creati circa cinque milioni. Secondo dato: le stime dell’organizzazione internazionale per il lavoro (ILO) indicano che la forza lavoro globale nella fascia d’età tra i 15 e i 24 anni si sta contraendo di 4 milioni di unità ogni anno. Presto, dunque, il problema non sara’ piu’ la disoccupazione giovanile, ma piuttosto la mancanza di forze giovani da inserire nel mercato del lavoro.
I due dati, solo apparentemente scollegati, sono contenuti nell’articolo che Giuliano Cazzola ha scritto per il Bollettino Adapt, sotto il titolo “Il progresso tecnologico non uccide il lavoro ma lo trasforma”. Cazzola smonta una serie di luoghi comuni, prendendo spunto da una risoluzione presentata alla Commissione Lavoro della Camera, prima firmataria la parlamentare Pd Irene Tinagli, e da uno studio scritto dalla stessa Tinagli sull’argomento. In sintesi, ne risulta che i continui allarmi rispetto alla ‘’morte’’ dei posti di lavoro dovuta alle innovazioni tecnologiche – presenti e soprattutto future- sono quanto meno eccessivi. Dati alla mano, Cazzola (e Tinagli) dimostrano che le varie rivoluzioni industriali che si sono succedute nei secoli non hanno mai causato la fine del lavoro, ma solo una trasformazione dello stesso; che si e’ costantemente tradotta, tra l’altro, in un aumento degli occupati. Tuttavia, per far fronte a queste rivoluzioni, occorrono livelli di competenze e saperi diversi, e superiori, rispetto all’oggi. E qui sta il vero problema dell’Italia: siamo all’altezza, quanto a formazione delle nostre forze lavoro?