La frase non fa parte dello scontro politico in atto, ma è una riflessione di un geniale gentiluomo di provincia francese del Cinquecento, Michel Montaigne. La sua diffidenza verso pretese di imporre cambiamenti originati da una sorta di “ingannevole” purezza politica richiama l’esigenza, anche oggi salutare, di ritrovare un sano spirito critico nel ragionare sulle prospettive del nostro Paese. Dopo il terribile disastro di Genova ad esempio è riemersa una voglia di nazionalizzazioni intesa più come reazione al precedente costume politico che come un eventuale segmento di un progetto compiuto di politica economica.
Intendiamoci, al di là dei risultati dell’inchiesta sul ponte crollato, la gestione di Monopoli privati come Autostrade dei Benetton non può essere esente da un severo esame di merito, e, di conseguenza, impone di affrontare con rigore nuovo il tema delle concessioni. Ma la parola “nazionalizzare” appare più una scorciatoia polemica per mettere con le spalle al muro le “colpe” della politica precedente al Governo giallo verde che l’avvio di un reale cambiamento. Appare insomma più come un espediente in grado di “coltivare” il rancore e l’insofferenza di quei tanti che hanno voltato le spalle ai partiti al potere con il voto del 4 marzo, che una svolta figlia di una cultura di Governo che vuole affermarsi in modo nuovo. Del resto, basta leggere le considerazioni recenti di uno dei leader della passata gestione del potere, Walter Veltroni, per accorgersi quanto sia ancora impossibile, per quella classe dirigente, il solo ammettere di essere oggetto di una vera e propria ripulsa anche da parte di chi non è certo razzista o populista. Diventando così bersaglio dei nuovi inquilini di Palazzo Chigi, mentre si fa sempre più debole il ruolo, essenziale in democrazia, delle opposizioni.
Eppure, la questione delle nazionalizzazioni che in realtà divide anche la attuale maggioranza al suo interno si presta a qualche riflessione utile per capire gli scenari, non facili, che abbiamo di fronte.
Nell’immediato dibattito che ne è seguito un dato ha colpito: quei centodieci miliardi di euro che sono entrati nelle casse dello Stato dalle privatizzazioni iniziate nel 1993 (e un debito pubblico sceso alla vigilia della grande recessione al 103%). Un dato che avrebbe sanzionato un intreccio poco trasparente far politica ed economia. Poco è stato comunque realmente analizzato delle caratteristiche di quell’imponente processo messo in atto e che ha portato sul mercato industria di Stato e banche pubbliche.
Certo, quella operazione portò in Italia diversi e importanti investitori stranieri ma con il progressivo risvolto negativo di poter impunemente fare “spesa” in un Paese che sembrava avesse smarrito almeno in parte l’esigenza fondamentale di sostenere settori strategici per il futuro manifatturiero. Certo, ci fu l’ingresso di imprenditori privati al posto dei Boiardi di Stato, ma in una logica vischiosa fra politica ed economia che ha portato ai cosiddetti Monopoli privati, ma non ad una continuità di investimenti di cui si aveva estremo bisogno. Un periodo difficile, quello del dell’ultimo decennio del millennio scorso, fra crisi della politica e crisi economiche vissute nell’alba della prima stagione della globalizzazione.
Sarebbe dovuto toccare al riformismo rimettere gradualmente le cose a posto. Ma, come sappiamo, non è andata esattamente così, tutt’altro: si è abbandonata la logica del compromesso sociale per un pseudodecisionismo che ha prodotto un distacco ancora peggiore dalla realtà, mentre si è sancita una sudditanza nefasta alle mode liberiste.
Forse anche per tali motivi il tema nazionalizzazioni ha assunto un significato di lotta ad un tabù alla rovescia: ribaltare l’idea che “privato è bello” per ritornare a sancire il primato della politica, che sarebbe anche la rivincita di una etica pubblica sui guasti del passato.
Ma come sono nate le nazionalizzazioni nei lontani anni ‘60 al tempo del primo centrosinistra riformatore? La spinta arrivò negli anni ‘50 da banchieri, economisti, industriali, come i Menichella, i Mattioli, i Carli, gli stessi Valletta e Costa, consapevoli che bisognava “rifare il Paese” e la sua economia. Nacque così il famoso sistema “misto” economico italiano, che portò lavoro e ripresa nel Paese e fece decollare lo Stato imprenditore. Mancava ancora una anima riformatrice: essa fu assicurata visibilmente proprio dalle nazionalizzazioni del primo centrosinistra, con l’ingresso dei socialisti nel Governo, a partire da quella dell’energia elettrica che aiutò ad “unificare” ulteriormente società ed economia. In poche parole, tutto ciò che fu realizzato rispondeva ad un forte e determinato progetto di modernizzazione, con grandi sacrifici del mondo del lavoro, pur fra contrasti politici e di interessi. Ma era una traccia chiara che intendeva collocare l’Italia nell’ambito delle nazioni più sviluppate. Non a caso il saggio di crescita del Pil nazionale ancora negli anni ‘60 è stato superiore a quello medio dei Paesi della Cee, l’Europa del tempo, e non quindi con performance da fanalino di coda come succede nel presente.
Per non parlare del progresso che questo progetto e questo sistema economico “misto” produsse, pure in un periodo fortemente radicalizzato sul piano ideologico, sulle relazioni industriali, anche per merito di manager pubblici di notevole livello e di un sindacato che cresceva in consenso ma anche per forza propositiva.
Ora, il richiamo alle nazionalizzazioni invece trasmette una ben diversa sensazione: quella di essere un paravento che nasconde un vuoto di progetto, una assenza di ciò che invece servirebbe come il pane, vale a dire una nuova ed illuminata politica industriale. Assistiamo invece alla drammatica e contorta vicenda dell’Ilva, alla duplicità di linea di politica economica fra le intenzioni di rilancio degli investimenti ed opere pubbliche dei ministri economici senza strappi con l’Europa e i mercati e la confusa predicazione a fare terra bruciata del passato di altri settori della maggioranza.
Questa mancanza di chiarezza finisce con l’impedire non solo giudizi meditati su quel che si vuol fare, ma rischia di aumentare i ritardi della nostra produzione ed economia e di gettare una pesante ipoteca sulle sorti della nostra occupazione. La direzione di marcia da seguire nell’economia reale, quella che produce stabilità, che attenua le diseguaglianze, che evita impoverimenti del nostro apparato industriale, finisce per diventare un dettaglio quasi insignificante. Tutto in nome di una non meglio precisata nuova “onestà” politica? Finora la storia ci insegna che la sostituzione fra forze politiche al Governo, senza l’emersione di vere capacità progettuali e senza una dialettica politica e sociale feconda ed in grado di creare anche momenti essenziali di collaborazione (come sarebbe necessario ad esempio per rimettere in sicurezza il territorio), conduce solo ad una diversa ed “esclusiva” occupazione del potere e a un depauperamento della qualità della cultura democratica, oltre che ad una minore reattività del Sistema economico alla evoluzione in atto. Proprio quello di cui questa Italia sempre a rischio di declino economico e civile non ha bisogno.
Ecco perché l’autunno che abbiamo di fronte è anche per il sindacato un banco di prova molto impegnativo. Non possiamo restare a guardare. Dobbiamo essere in grado di interagire con il confronto politico ed economico che riparte fra contraddizioni e contrasti evidenti, e forse anche contenenti una certa dose di pericolosità per il futuro. Siamo in grado di far valere il nostro ruolo, abbiamo proposte e una capacità di unità per creare consenso attorno ad esse. In una fase tanto confusa della vita politica ed economica un nostro contributo di merito può essere davvero prezioso.