“Brambilla & Figli”. Qualche volta anche solo Brambilla & F. o un po’ involuto Brambilla &F.gli. Insomma, Brambilla e famiglia. Potrebbe essere questo lo stemma dell’Italia industriale, una distesa sterminata di fabbrichette monofamiliari, di cui Brambilla è l’eponimo lombardo, ma che si declina in tutte le regioni (i Pautasso, i Pierobon, gli Esposito, i Masini ecc. ecc. ecc.).
Sono queste microaziende con un pugno di operai, tre macchine e un padrone tuttofare che hanno fatto il miracolo italiano, hanno tenuto a galla il paese dopo gli shock petroliferi e tuttora, nonostante il declino, rappresentano lo scheletro portante dell’industria manifatturiera italiana e delle sue capacità di esportare. Uno spirito e una psicologia, spesso ancora marchiati dalla vicinanza con l’esperienza contadina. Ma anche un inno alla flessibilità, all’intraprendenza, all’inventiva, al rischio. E’ stata la loro forza, ma i tempi nuovi hanno fatto emergere le loro debolezze: con pochi capitali, lontano dalla Borsa, ostaggio del credito bancario è difficile cavalcare l’onda della globalizzazione e tenere il passo del progresso tecnologico. Se si facesse una scansione delle preoccupazioni e delle angosce di lungo periodo dei vertici delle aziende italiane, si vedrebbe che l’incubo non è, come all’estero, l’innovazione o i mercati lontani, ma il passaggio dalla prima alla seconda generazione o, ancor più, dalla seconda alla terza. L’economia italiana ansima, insomma, anche perché il suo motore industriale è troppo debole e frammentato.
E’ il capitalismo familiare, allora, uno dei principali responsabili della crisi? Se, anziché nelle mani di una sola famiglia, il grosso delle fabbriche italiane avesse la proprietà distribuita in un largo azionariato, la situazione cambierebbe di segno? La risposta è no. Il problema, come dimostra l’esperienza estera, non è la qualità della proprietà aziendale. In Italia, l’86 per cento delle imprese fa capo ad una famiglia proprietaria. Ma non è un’eccezione. In Francia, sono l’80 per cento, in Spagna l’83, finanche nella Gran Bretagna della City sono l’81 per cento. Nel favoloso mondo delle Mittelstand tedesche, le imprese a proprietà familiare sono anche di più: 90 per cento. Per dirla in una frase, l’impresa a proprietà familiare, in Europa, è la norma. Perché, allora, il capitalismo familiare da noi è un problema, ma in Francia, in Germania, in Gran Bretagna no? Il solco che divide l’Italia dal resto d’Europa non è la proprietà. E’ la gestione.
Qui, non si tratta di andare a vedere il boss, il capo, l’amministratore delegato. Nell’84 per cento delle Brambilla & F.gli. l’amministratore delegato è un Brambilla. Ma in una percentuale analoga di imprese familiari tedesche il capo fa parte della famiglia. In Gran Bretagna siamo al 70 per cento, in Francia ancora al 62 per cento. No, la differenza è subito sotto. In due terzi delle imprese familiari italiane l’intero management, dall’amministratore delegato giù giù ai responsabili dei diversi settori è fatto di figli, generi, cognati e cugini. All’estero, questa ansia di tenere tutto in casa non c’è. In Germania e in Francia, le imprese in cui l’intero management ha lo stesso cognome e, la domenica, si ritrova intorno allo stesso tavolo da pranzo, sono solo un quarto del totale. In Inghilterra, appena il 10 per cento. Mentre i Brambilla non mollano un centimetro, dunque, all’estero le famiglie delegano volentieri i compiti operativi a dirigenti trovati e sperimentati sul mercato, a prescindere dalle parentele. Lo specchio di questa differenza è nelle filosofie di gestione. Tutte le imprese familiari, in Italia e all’estero, tendono ad avere una gestione accentrata. Ma oltre il 40 per cento delle dinastie industriali tedesche, francesi, inglesi, remunerano i propri dirigenti in base alla performance aziendale, anziché per diritto acquisito. In Italia, solo un’azienda familiare su sei. Anche nelle aziende in cui l’intero management è familiare si vede la differenza: un terzo e passa delle imprese francesi, tedesche, inglesi, in cui il responsabile delle vendite è il genero e il capo del personale la nipote, remunerano ugualmente i dirigenti sulla base di qualche criterio obiettivo di performance. In Italia, appena il 10 per cento. Il resto si basa su qualche forma di diritto ereditario.
L’industria italiana ha bisogno di una grande ondata di rinnovamento. Ma il problema principale non è il signor Brambilla. E’ suo cugino.
Maurizio Ricci