“E’ tutto conseguenziale. Per assicurare stabilità politica occorre che il capo del governo non sia tratto fuori dal forcipe della partitocrazia ma venga nominato direttamente dal presidente della Repubblica. E perché quest’ultimo possa farlo occorre che a sua volta non sia servo della partitocrazia ma venga eletto direttamente dal popolo. Ecco i lineamenti di una Repubblica presidenziale moderna”.
Così parlava Giorgio Almirante nel 1983 durante una trasmissione televisiva condotta da Enzo Biagi. Nulla di nuovo, in realtà. Non faceva che ripetere il programma iniziale del Msi, di cui era stato uno dei fondatori e il primo segretario. Ma il clima era mutato e l’attacco alla democrazia rappresentativa stava diventando luogo comune. Bettino Craxi, prima, Silvio Berlusconi dopo, con in mezzo Tangentopoli, avrebbero dato un contributo decisivo a questa campagna denigratoria. Con l’aggiunta, poi, di Beppe Grillo e di Matteo Renzi. Ora, come in un’agghiacciante vendetta, a far salire i padri costituenti sul banco degli imputati, sono proprio gli epigoni di Almirante. I vinti processano i vincitori.
Alle elezioni del 1948 il Movimento sociale, che già nell’ottobre del 1947 aveva partecipato alle comunali di Roma, si presentò “agli italiani con “una elaborazione degli elementi programmatici” che hanno il fine di “difendere gli interessi e la dignità del popolo italiano e della Nazione” (uno slogan che in questi mesi riecheggia beffardo dalle finestre di Palazzo Chigi).
L’ opuscolo, sedici pagine, fu distribuito come supplemento al numero quattro del periodico “La rivolta ideale”. Nel capitolo “obiettivi immediati”, leggiamo, a pagina 3, che il sistema parlamentare appena nato andrebbe subito cassato perché “senza rispondenza con uno stato moderno”. Il Senato viene bollato come un inutile doppione chiedendone la sostituzione con “una sede più idonea per la rappresentanza degli interessi delle categorie produttrici e degli enti e corpi morali organicamente ordinati e confluenti nello Stato”.
E, soprattutto, il presidente della Repubblica ha “poteri troppo angusti e quasi simbolici”. Per questo, gli eredi del Ventennio e i reduci di Salò sono perentori: “Lo Stato deve essere guidato da un capo eletto dal popolo e non scelto con un compromesso tra i partiti e posto in condizione di dirigere effettivamente ed efficacemente la cosa pubblica con piena responsabilità di fronte alla rappresentanza nazionale ma con poteri sufficienti ad assicurare stabilità e continuità”.
Ma che si intende per Stato? “Lo Stato è un’entità della vita morale, politica, economica e sociale, in cui si realizza l’unità del popolo in quanto nazione e deve essere pervaso dal senso dei valori storici della stirpe e dall’ansia del suo divenire”. Lo chiarisce il documento sulla “politica interna e costituzionale” che l’organizzazione neofascista, ormai solida realtà nonostante lo scarso risultato nel voto del 18 aprile, presenta al suo primo congresso, Napoli, 27, 28 e 29 giugno 1948.
In quella sede l’appello rivolto agli italiani pochi mesi prima diventa programma. Non dovrebbero essere lì, in via Tarsia 32, i nostalgici della camicia nera, del manganello e dell’olio di ricino. Eppure, eccoli sfidare le norme che ne imporrebbero lo scioglimento. La Costituzione, che nessuno ha il coraggio di applicare nei loro confronti, viene definita “precaria e provvisoria”. “Imposta” dai partiti, che “si rivelano organismi estranei al popolo, accentrati, autoritari, irresponsabili, in funzione di interessi particolari, eterogenei, divergenti e spesso legati a posizioni sopra nazionali e antinazionali” (oggi è l’opposizione ad essere accusata di anti-italianità). E allora diventa “necessario attribuire al popolo nei suoi comizi la nomina del Presidente della Repubblica”.
È proprio Giorgio Almirante, nella relazione di apertura, a ribadire con sprezzo e sicumera questi concetti. La denigrazione del parlamentarismo, il rifiuto della rappresentatività bicamerale, la demonizzazione del compromesso quale formula aurea di incontro e di dialogo, l’esaltazione dell’uomo forte al comando, la concezione di una dittatura della maggioranza in spregio ad ogni diritto delle minoranze: l’assalto all’equilibrio istituzionale frutto della Resistenza e dell’antifascismo è cominciato subito.
La talpa ha continuato a scavare, mentre la scena via via mutava. Tra ammiccamenti e furbizie, tentativi di cavalcare l’onda e ambiziosi progetti, commissioni di alto rango e reconditi scopi, antipolitica e penosa miopia, demagogia e corruzione, protagonismo e arrendevolezza, siamo arrivati ad oggi. Di presidenzialismo è lecito parlare, lo fece persino Piero Calamandrei. Ma a far paura sono i toni usati, gli stessi di Almirante. Uno stesso progetto, come la fiamma nel simbolo.
“Basta con i governi costruiti in laboratorio”, proclama Giorgia. Giorgio gongola.
Marco Cianca