Una scheda allegata all’articolo di Marco Fortis sul Foglio di martedì dimostra (percentuali alla mano) che nei distretti industriali – i quali rappresentano i pezzi pregiati della nostra struttura produttiva – nel corso di una decina di anni la Lega ha almeno raddoppiato, se non triplicato i propri suffragi elettorali. Il titolo () è di per sé indicativo dell’analisi di Fortis.
In sostanza, è senz’altro credibile che lo slogan ‘’aboliamo la legge Fornero’’ – di cui Matteo Salvini ha il copyright – abbia procurato molti consensi al suo partito, da sempre in prima linea (salvo un attimo di distrazione ai tempi dello “scalone” di Roberto Maroni) nella difesa delle pensioni ‘’padane’’. Ma è più convincente l’idea che abbiano ottenuto maggiore condivisione altri slogan come “fuori i negri”, “no agli sbarchi dei clandestini”, “padroni in casa nostra”, “le ruspe contro i campi rom” e quant’altro di “politicamente scorretto” (prima del 4 marzo definito con epiteti ben più gravi e duri) stava al centro della proposta politica leghista. Certo, è sconvolgente per un sindacalista accettare un cambiamento così marcato nel comportamento di quei lavoratori che ritiene di rappresentare. Molto meglio – come fanno tanti dirigenti, soprattutto della Cgil, in queste ore – autoflagellarsi, attribuire le responsabilità di quanto è successo a politiche errate che il sindacato non è stato capace di contrastare con efficacia.
Un’analisi simile non può non condurre alle “frasi fatte” proprie della sconfitta e della rassegnazione: meglio sbagliare insieme con i lavoratori che avere ragione senza di loro. Alessandro Genovesi, uno dei migliori sindacalisti della nuova generazione, nella sua intervista al Diario del Lavoro, si domanda “se con questo voto (del 4 marzo, ndr) si evidenzia la scissione tra i gruppi dirigenti del sindacato, che hanno votato tutti per i partiti di centrosinistra, e il mondo del lavoro dipendente, anche quello pubblico, che ha trovato normale avere in tasca la tessera della Cgil e votare 5 Stelle o Lega”. E che cosa dovrebbe fare il sindacato per dimostrare quel coraggio che, secondo Genovesi, probabilmente non ha? Deve fare propri i disvalori con cui la Lega ha fatto incetta di voti? Deve combattere il populismo con altrettanto populismo? Oppure ricordarsi – magari i dirigenti più giovani, che non erano presenti, possono leggere gli atti – di quanto disse, nel 1988, Bruno Trentin a Chianciano Terme (la sua prima uscita da segretario generale della Cgil dopo l’infausta ed inadeguata direzione di Antonio Pizzinato): che anche i lavoratori possono sbagliare.
Erano scoppiate allora alcune vertenze di natura corporativa in settori tradizionalmente legati alla Cgil (i macchinisti delle FS e i portuali): agitazioni più o meno analoghe a quanto sta succedendo in queste settimane in Francia contro la riforma della SNCF proposta dal governo Macron. Le classi lavoratrici non sono il sale della terra, non sono portatrici sane e predestinate dei valori della giustizia, della libertà e della democrazia. Gli edili americani erano i primi a scontrasi con gli studenti che manifestavano contro la guerra in Vietnam. Durante il secondo conflitto mondiale Franklin Delano Roosevelt mandò l’esercito a Chicago per stroncare uno sciopero nel settore dei trasporti proclamato per protesta contro l’attribuzione a lavoratori afro-americani di mansioni qualificate fino ad allora riservate ai bianchi. Non vogliamo andare così lontano nel tempo? Bene. Che dire, allora, degli operai siderurgici che stavano alle spalle di Donald Trump quando il presidente firmava il decreto in materia di dazi?
Si può replicare che i lavoratori italiani – e in generale europei – sono diversi da quelli americani. Salvo dimenticare le crociate contro “l’idraulico polacco” che determinarono una sostanziale battuta d’arresto nel processo di integrazione europea o le derive scioviniste egemoni nei Paesi del Gruppo di Visegrad, che stanno voltando le spalle a quell’Europa che li ha accolti fraternamente dopo decenni di tirannia sovietica. Per non parlare dell’Italia. Un centinaio di anni or sono siamo stati i primi a seminare in Europa la malapianta del fascismo. Oggi esportiamo per primi l’affermazione del sovranpopulismo, C’è poi un’altra opportuna riflessione da compiere soprattutto all’interno della Cgil. Molti sindacalisti si sono precipitati a sostenere che – tutto sommato – è stata la confederazione di Corso d’Italia a portare avanti quelle rivendicazioni che – inserite nei loro programmi – hanno assicurato alle forze populiste una valanga di voti. Ammesso e non concesso che i No alla legge Fornero e al jobs act siano stati decisivi nel voto al M5S e alla Lega, non viene il dubbio al gruppo dirigente della Cgil di poter essere accusato di “concorso esterno in associazione populista”? E non ci vengano a raccontare, adesso, di essere preoccupati per talune dichiarazioni antisindacali di esponenti “grillini” quando ancora non avevano indossato il doppiopetto (limitandosi solo a farsi consigliare da Giorgio Cremaschi).
L’apertura di credito del Movimento verso quella pietra d’angolo del populismo che è la ‘’Carta dei diritti universali del lavoro’’, promossa dalla Cgil (la cui approvazione avrebbe effetti devastanti per l’economia del Paese), dovrebbe rassicurare che la guerra non solo è finita, ma che non comincerà neppure. Nel suo Congresso la Cgil deve cambiare quelle scelte politiche che hanno aperto la strada al dilagare del populismo. Ci sono dei momenti – e la Confederazione ne ha conosciuti, a torto o a ragione, tanti nella sua storia – in cui occorre dire in modo netto e senza equivoci: “jamais”. Si perderanno iscritti, potere, forza organizzativa. Ma quando si troveranno in fila davanti ai bancomat per prelevare la somma consentita quotidianamente dopo il blocco dei conti correnti (la sorte che toccherà tra breve al Paese dopo un eventuale governo M5S e Lega), i lavoratori dei distretti industriali ricorderanno chi ha avuto il coraggio (è questo Genovesi il coraggio che è necessario adesso) di ribadire “we shall never surrender”.