Il titolo più azzeccato per descrivere i tempi interessanti in cui viviamo lo ha fatto un piccolo giornale, Il Riformista. Il titolo è di giovedì 4 luglio e prendendo ispirazione da Jovanotti recita: “Il più grande spettacolo del week end”. Perfetto per definire gli eventi iniziati appunto giovedì 4 luglio, quando la politica estera, tradizionalmente negletta sui media italiani, si è ripresa il palcoscenico. Iniziando con le elezioni nel Regno Unito, che hanno segnato la fine di 14 anni di pessimi governi Tory premiando con 410 seggi il “laburista riluttante” (altra definizione perfetta), cioè il moderato e riformista Starmer, e dimostrando come non sia un destino irrevocabile l’ascesa della destra in Europa. Per poi proseguire tra sabato e domenica con la chiusura della più breve campagna elettorale della storia e il secondo turno delle elezioni francesi, dalle quali abbiamo scoperto che quella di Emmanuel Macron è stata una geniale mossa del cavallo, e non un azzardo da pokerista finito con la consegna della Francia a Marine Le Pen. Contro tutte le previsioni, le urne hanno infatti ricacciato la destra al terzo posto, mettendo al primo addirittura la sinistra di Melenchon. E Macron, di cui si preconizzava la fine, resta ancora il mazziere cui spetterà distribuire il prossimo giro di carte.
Ma non è tutto: perché su tutto – su UK, Francia, Europa, resto del mondo – incombono le vicende americane e il balletto attorno al ritiro, vero o presunto, ma comunque molto e da tutti suggerito, di Joe Biden dalla contesa elettorale con Donald Trump, e che proprio nel week end ha avuto una brusca accelerazione. Per capire cosa sta succedendo negli Usa, tuttavia, più che gli analisti di politica internazionale vengono in aiuto due famosissime serie Tv che hanno raccontato i dietro le quinte della Casa Bianca come nessun altro. Le due serie sono The West Wing e Scandal, frutto del genio di Aaron Sorkin la prima e di Shonda Rhimes la seconda. Diversissime tra loro da ogni punto di vista, tranne nello spiegarci che, quando si parla di politica americana, può davvero succedere l’incredibile. E che quell’incredibile, però, ricalca prima o poi quasi sempre la realtà e a volte la predice.
In West Wing, per dire, serie girata tra la fine degli anni 90 e i primi Duemila, il presidente in carica, il democratico Jed Bartlet, è malato di sclerosi multipla, ma non lo ha mai rivelato agli elettori. La faccenda a un certo punto viene fuori e ne mette in discussione la credibilità. Dopo molti patemi d’animo -mi ritiro, non mi ritiro- si decide di andare avanti: Bartlet dimostra che, pur malato, è riuscito comunque a governare bene il paese, e giura di essere in grado di riuscirci per un altro mandato. Tanto che viene rieletto, anche e soprattutto grazie al fatto che il partito democratico si schiera compatto a difesa del suo leader e presidente. Non sta accadendo la stessa cosa tra Biden e i Dem americani, i quali fanno a gara per impallinare il loro al momento migliore e forse unico candidato, fortemente supportati nell’operazione dai principali media del paese, a partire dal New York Times, ovvero il quotidiano più letto e potente d’America: tradizionalmente vicino ai presidenti democratici, ma evidentemente non a Biden. Ed è abbastanza stupefacente questo attacco diciamo ‘’da sinistra’’ alla credibilità del presidente, a pochi mesi dal voto e a poche settimane dalla convention che dovrebbe conferirgli la nomination, dopo che Biden ha già vinto le primarie con il 99% dei consensi. Tanto da chiedersi, un pop ingenuamente, “cosa c’è dietro”: una reale patologia di Biden? La solita sciatteria dei dem Usa nel gestire le crisi? Una congiura?
E qui forse ci aiuta a decodificare come stanno le cose l’altra serie Tv, Scandal, centrata sulla maga della comunicazione Olivia Pope, personaggio passato alla storia della Tv sia per i suoi impeccabili outfit che per l’abilità cinicamente spietata nel risolvere con ogni mezzo, lecito e non, le numerose crisi di immagine e di potere della Casa Bianca. In un ideale crossover tra West Wing e Scandal, potremmo dire che in questo momento a Washington manca più che altro una Olivia Pope in grado di prendere le redini del “caso Biden”, evitando il massacro di un presidente che per quattro anni ha gestito impeccabilmente sia l’economia che ben due guerre, lanciando la prima a vette insospettabili (un Pil che cresce del 5 per cento, occupazione ai massimi storici, stipendi aumentati, inflazione battuta, Cina rimessa a cuccia, eccetera), mentre con grande equilibrio teneva a bada le seconde, impedendo che sfociassero in conflitti più ampi e peggiori.
Il gioco che si sta giocando a Washington appare invece dilettantesco e probabilmente ormai senza sbocchi. Un gioco che assomiglia al classico Comma 22: se Biden si ritira la partita è persa, perché equivarrebbe a dichiarare che in questi ultimi quattro anni alla guida del paese più potente del mondo c’era un povero vecchio inabile, offuscando quindi anche i molti successi della sua presidenza. Inoltre, i democratici non hanno nessun candidato migliore con cui sostituirlo. I personaggi di cui si parla sono uno più debole dell’altro: dal governatore della California – ovvero lo Stato che in questi anni è arretrato da ogni punto di vista, l’economia va malissimo, la criminalità dilaga, le diseguaglianze hanno raggiunto vette inaudite, con il più alto numero di homeless di tutta la nazione: non una grande idea affidargli la nazione – alla vice Kamala Harris, desaparecida per quattro anni e che adesso si presume che sia in grado di battere Trump, magari per il fatto che è l’unica a poter “ereditare” i cospicui fondi elettorali elargiti al ticket dem. Ma il gioco potrebbe essere perso anche se Biden non si ritirasse: se perfino i suoi lo ritengono invotabile, perché mai dovrebbero votarlo gli americani? Comma 22, appunto.
L’esito delle decisioni a Washington, cosi come delle elezioni francesi e inglesi, avranno ripercussioni assai ampie sull’Europa e sull’Italia. Dove anche succedono cose interessanti. Alzando gli occhi dalle polemicucce di quartiere, o dall’esegesi delle letterine della premier, vale la pena di notare alcuni fatti. Per esempio, la scelta dei Cinque Stelle di accasarsi in Europa nel gruppo di estrema sinistra Left, assieme a Fratoianni e alla vittoriosa France Insoumise di Melenchon: per un partito che ha fatto del “ne – né”, né di destra né di sinistra, il suo mantra, non è male come novità. L’altra notizia interessante stava in due righe di una intervista di Marina Berlusconi al Corriere della Sera (il nostro NYT?), dove l’erede del Cavaliere ha affermato che sui diritti civili si sente più vicina all’opposizione che al Governo: un campanello d’allarme per Giorgia Meloni. Per carità, piccolezze rispetto agli tsunami di cui abbiamo parlato fin qui, ma che inserite in un contesto globale di mutamenti politici potrebbero avere un senso. Perché non c’è dubbio che l’esito del voto inglese, di quello francese, e di quello americano, avranno riverbero sulla politica italiana, sull’assetto dei partiti di Governo, sulla destra come sulla sinistra, sul futuro dell’Italia e dell’Europa.
Europa che, tra l’altro, il 18 luglio dovrà valutare i nuovi vertici dell’Ue col voto del neo eletto parlamento. Infine, tra gli eventi di questi incredibili giorni va annotato anche il nuovo attivismo di Victor Orban, che non appena assunta la presidenza di turno della Ue si è autoincaricato come mediatore per un accordo tra Russia e Ucraina, ed è partito per Mosca. Non solo: il suo nuovo gruppo dei ‘’patrioti’’ sta diventando una sorta di calamita in grado di attrarre praticamente tutte le destre europee, fino a diventare il terzo per importanza. n quale direzione gireranno tutte queste onde in gran movimento, dove si frangeranno, lo vedremo nelle prossime settimane. Quel che è certo è che viviamo in tempi decisamente interessanti, e se questo primo week end di luglio è stato più sorprendente che mai, non c’è dubbio che lo saranno anche i prossimi.
Nunzia Penelope