Karel è disperato. “Ho cominciato ad avere l’impressione che tutto ciò che mi circondava non fosse vero, come in un sogno o in un disegno, con la sola differenza che si muoveva. Mi pareva di vedere un brutto quadro con colori smorti, sbiaditi, i contorni storti. Anche il mio corpo mi sembrava disseccato e rimpicciolito. E poi avevo l’impressione di essere posseduto. Non sentivo il mio peso. I miei movimenti non dipendevano dalla mia volontà”. Il suo racconto terrorizza gli altri cinque astronauti che con lui sono atterrati su un pianeta misterioso. Qui hanno scoperto che gli abitanti, simili ai terrestri, avevano raggiunto un alto livello di civiltà ma poi erano stati decimati e costretti a rifugiarsi in una sorta di catacombe ermeticamente sigillate, con stanze di disinfestazione. “Prima morivano i vecchi e i deboli. Ora anche gli altri”, spiega uno dei sopravvissuti.
Il serial killer è un virus, il Gleg. “La diffusione si compie per mezzo del respiro”, ammoniscono i reietti. Gli esploratori dello spazio scoprono che si tratta di un frutto dei “maledetti laboratori”, la creazione di una esasperata tecnologia tesa all’onnipotenza. Poi i Gleg “si moltiplicarono, subirono mutazioni e divennero immuni ai vaccini”, anzi “in realtà l’effetto del vaccino si rivelò molto più transitorio del previsto”. E allora cominciò il collasso. Gli scienziati vennero chiusi per punizione in camere stagne e infettati. Il governo, incapace e repressivo, inanellò una serie di decisioni sbagliate. Il popolo, paralizzato dalla paura, cominciò a scendere nel sottosuolo.
“Se riusciamo a tornare sulla Terra, ai Gleg verrà messa la museruola. Siamo pur riusciti a vincere i virus dell’idrofobia, della poliomielite e dell’influenza! E sì che quelli dell’influenza sono un’infinità”. Ma la malattia, che quando non uccide trasforma in ebeti automi, contagia l’equipaggio. Solo due sono ancora in grado di scappare e di raggiungere la stazione lunare. “Ritti l’uno davanti all’altro si guardavano a vicenda. Le maschere di garza coprivano quasi tutto il volto. Gli occhi erano la sola cosa viva su questo bianco sfondo inanimato. Gli occhi vedevano e capivano tutto”. Ogni lettore può immaginare il finale che preferisce.
La scrittrice e poetessa russa Ariadna Gromova ha ideato questo racconto nel 1962, di recente pubblicato in Italia da Jouvence. E vale la pena di rileggerlo oggi, quando l’umanità è di fronte ad un bivio. Nuovo Rinascimento o fuga nelle caverne? Il Gleg è un antesignano del Coronavirus, immaginato sessant’anni prima, simbolo della pandemia e della natura che si rivolta. La fantascienza, possono essere aggiunti tanti altri esempi, conferma la sua capacità profetica. Ma il conflitto tra il progresso e il senso della vita, tra i modelli di sviluppo e la dimensione esistenziale, resta irrisolto.
Non sappiamo se dopo le timidezze del G20, la conferenza sul clima in corso a Glasgow produrrà risultati concreti. Come monito basterebbe la foto del lago Tuz, in Turchia: il bacino ipersalino, esteso per 1.165 chilometri quadrati, è ormai completamento prosciugato a causa del surriscaldamento globale.
Mark Zuckerberg, anche per sottrarre Facebook all’assedio delle critiche, propone intanto di trasferirci tutti nella realtà virtuale del metaverso. Al contrario, bisognerebbe uscire sempre più dai social, per un’eterogenesi dei fini divenuti l’apoteosi dell’individualismo alienato, ed entrare nella società vera.
Gli archivi letterari di Mosca conservano un manoscritto incompleto di Ariadna Gromova. L’azione del romanzo si svolge in quattro epoche diverse: all’inizio del 1200 in Linguadoca, durante la crociata contro gli albigesi; nei primo quarto del 1500 in Germania, ai tempi della guerra dei contadini; nel 1940 in Polonia, seconda guerra mondiale; nel ventitreesimo secolo, prossimo venturo. Il titolo sarebbe dovuto essere “Vagando attraverso i cuori”. Utopie, tragedie, speranze.
“La Terra ne ha viste di tutte”, sentenzia uno degli astronauti, convinto che anche il Gleg sia destinato alla sconfitta. La fiducia nel futuro resta incrollabile.
Marco Cianca