Seguo da lontano (ma il rumore è tanto intenso che si sente tutto lo stesso) le fasi conclusive del Congresso del Pd. E ho sempre più l’impressione di leggere una versione moderna di “Delitto e castigo”. Il fatto è che il castigo è palese quotidiano, implacabilmente masochistico. E del delitto che non si ha traccia. E l’habeas corpus è un principio fondamentale del diritto penale. Il gruppo dirigente del Pd somiglia ad una processione di flagellanti che gira smarrita per le strade di un paese invocando i santi protettori di scacciare la pestilenza. E tra una frustata e l’altra chiedono perdono dei peccati commessi. Certo non è piacevole per un partito perdere le elezioni; ma perché andare alla ricerca di ogni possibile castigo divino per i gravi peccati commessi, come se il popolo eletto (in attesa di Mosè impegnato sul monte Sinai a colloquio col Signore) si fosse messo ad adorare un vitello d’oro (l’ordoliberismo) suggestionato dalle sirene del mercato senza aver fatto uso della cautela di Ulisse ed essersi fatti legare al palo. La cosa poi che lascia più stupiti sono i lai del gruppo dirigente quando, al momento in cui si vanno a contare i voti, si scopre che gli esiti sono esattamente quelli che erano stati previsti. C’era forse qualcuno che, il 25 settembre, sperava in un miracolo, perché solo un miracolo avrebbe potuto determinare un risultato diverso. Il Pd ha perso perché ci sono le correnti, perché non è più abbastanza di sinistra, perché non ha una identità non definita, perché ha la necessità di ritornare ai valori di una volta, perché i suoi dirigenti non vanno a fare la spesa al supermercato o non si mettono in fila alla Caritas, perché non sentono più il dolore del popolo che soffre, perché non vuole più cacciare la Nato dall’Italia? O perché ha gestito le elezioni in un modo che – stante quella legge elettorale che non aveva voluto o potuto cambiare – gli era impossibile vincere? Il M5s si era assunto una grave responsabilità, è vero. Ma nessuno avrebbe rimproverato un accordo tecnico anche soltanto di desistenza col M5S, che oggi, dopo la sconfitta, sembra essere l’oggetto del desiderio del Pd? Ma poi è o non è il gruppo dirigente che si autoaccusa di aver governato per dieci anni su undici senza aver vinto le elezioni, di aver fatto politiche che non erano di sinistra, per di più contrarie agli interessi dei lavoratori, di aver ignorato il grido di dolore dei poveri e degli afflitti, di essere stato contaminato da deviazioni mercatiste, di non aver sradicato il precariato e di aver redatto manifesti buoni solo per incartare il pesce. Quando sono gli stessi candidati alla segretaria ad ammettere che quel partito è da buttare per quale ragione gli elettori dovrebbero votarlo? Ma poi quali sono le colpe per le quali il Pd ha indossato il cilicio? Su quali basi, in un Paese che svolta a destra Elly Schlein invita il partito ad “essere un partito di sinistra che rappresenta chi non ce la fa”? L’Italia oggi è il Paese che cresce di più in Europa, che supera regolarmente le previsioni, che ha affrontato la crisi pandemica, quella energetica (aggravata dalla guerra in Ucraina) riuscendo in pochi mesi a sventare le narrazioni che presentavano un’economia al buio e le famiglie al freddo. L’occupazione non solo tiene, ma migliora nella qualità e nella maggiore stabilità dei rapporti di lavoro. Oggi ha preso il sopravvento una diversa emergenza: più del lavoro che manca, sono i lavoratori a mancare. E si sta verificando la profezia di Pietro Ichino: ci sono tanti lavoratori che si stanno scegliendo il padrone (questo è il senso di un numero di dimissioni volontarie nei primi nove mesi del 2022 pari a tre volte il numero dei licenziamenti). Chi ha condotto l’Italia a questo punto? Non certo il governo Meloni. Ma almeno “io sono Giorgia” per ora gode i frutti di quelle politiche di cui il Pd è pentito. Un capolavoro. Non ha senso che sia il Pd a scrollarsi di dosso e a ripudiare l’esito di una azione condotta nell’interesse del Paese, di cui è stato tra i protagonisti principali nei dieci anni (su undici) che ha governato senza aver vinto le elezioni (è questo il réfrain di un assurdo complesso di colpa). In un grande Paese nessuno deve restare indietro; vanno migliorate le politiche di inclusione sociale, perché l’esperienza del RdC ha messo in evidenza che chi è povero ed emarginato quasi sempre non è occupato perché non è occupabile. La lotta alla povertà è prima di tutto lotta alla povertà educativa. Ma non si vincono le elezioni e non si governa un Paese con quanti sono costretti a mettersi in fila per un pasto caldo alla Caritas. Quanto alla “nuova frontiera dei diritti” si tratta di battaglie giuste anche se riguardano delle nicchie di popolazione, perché sono le minoranze che in democrazia devono essere tutelate dalle maggioranze. Ma vi siete accertati se il ddl Zan fa guadagnare o perdere voti? Parlate dei “nuovi diritti” come una volta parlavate del comunismo. Era tanto scontato che fosse un mondo migliore che non riuscivate a concepire che gli elettori votassero Dc. Oggi sposate i temi ambientali e dei diritti civili con lo stesso fanatismo acritico dei cui vizi vi siete accorti con dolore e stridore di denti.
Giuliano Cazzola