Nei giorni scorsi tra governo e sindacati è stato raggiunto il ‘Patto per la scuola la centro del Paese’. Un patto, che potremmo definire di semi-concertazione, il quale continua il ciclo avviato da un analogo Accordo relativo al pubblico impiego nei mesi scorsi.
Si riaffaccia quindi nel nostro sistema l’idea che alcune materie, nelle quali la regolazione del lavoro investe beni pubblici – come è in questo caso quello del potenziamento dell’istruzione – sia importante la cooperazione tra le istituzioni pubbliche e i soggetti deputati a rappresentarli, e gli interessi organizzati, in questo caso i sindacati.
Che il tema della manutenzione e del rilancio della scuola siano una questione che va oltre i confini settoriali lo si trova riaffermato nel fatto che, pur in assenza della firma del Presidente del Consiglio, i firmatari di tale Patto, insieme al Ministro competente, siano stati i segretari generali delle tre Confederazioni.
Ci troviamo così di fronte ad un’altra tappa di quello che è stato definito come ‘metodo Draghi’: un percorso basato su accordi di carattere settoriale, che coinvolgono tutti i soggetti interessati lungo la direttrice del rafforzamento della collaborazione reciproca.
Ho parlato di semi-concertazione per due ragioni. La prima è definitoria, e consiste nel fatto che lo stesso concetto di concertazione – respinto dal predecessore di Draghi – resta sullo sfondo, non pronunciato e non sdoganato. La seconda si sostanza nella ragione che negli ambiti finora toccati il governo svolge il doppio ruolo di terza parte e di datore di lavoro, e mancano ancora intese davvero tripartite con le associazioni datoriali: la stessa Aran, la cosiddetta Confindustria pubblica, non figura tra i firmatari.
Questo Patto contiene indicazioni generali e programmatiche, insieme a riferimenti connotati da una più netta capacità operativa e orientati verso atti ad efficacia immediata. In effetti questo tipo di patti serve a rinsaldare i legami e la fiducia reciproca tra gli attori: dunque appare importante che essi siano dotati anche di un nucleo e di una portata di carattere simbolico.
In questo caso il testo si sofferma su diversi aspetti vitali. Viene riaffermata la valenza di “infrastruttura strategica” del sistema di istituzione, nella veste di volano dello sviluppo economico e della sua qualità e sostenibilità. Viene evocato un “nuovo modello culturale” verso il quale spinge l’apprendimento collettivo delle novità dirompenti imposte dalla Pandemia – un passaggio logico e pratico di non poco conto -: cosa che pone tutti davanti alla necessità di investire nel cambiamento organizzativo. Come hanno notato alcuni commenti, la spinta verso il cambiamento continuo comporta una costante manutenzione formativa. E questo aspetto porta a sua volta in primo piano la ‘centralità della figura dell’insegnante’: il cui rilievo nelle enunciazioni di questo documento non costituisce solo un richiamo di principio, ma rinvia anche alla definizione degli strumenti operativi atti ad invertire il declassamento sociale vissuto dai nostri professori negli ultimi decenni. Di qui l’intento di mettere in opera “interventi strutturali e organici”.
Per questo un ‘ampia insistenza è rivolta alle procedure di reclutamento, che occupano un posto cruciale nella vita del sistema scolastico. In un duplice senso. Da un lato quello di favorire uno stringente rispetto dei tempi, dentro un quadro di programmazione pluriennale, e non più ripiegato sull’emergenza congiunturale, ai fini dello svolgimento delle selezioni e dell’inserimento in ruolo: in modo da evitare le note disfunzioni da cui la scuola italiana è stata afflitta in passato. Un obiettivo importante, che è poi integrato dalla novità principale di queste pagine: quello di potenziare la formazione iniziale dei docenti anche basandola su un modello formativo strutturato e integrato tra scuola e Università, “idoneo a sviluppare coerentemente le competenze per l’esercizio della professione”.
Sembra dunque che l’intento sia quello di investire in modo mirato sulle conoscenze disciplinari ma anche sulla capacità didattica e pratica degli insegnanti : un nodo, su cui attira l’attenzione Andrea Gavosto della Fondazione Agnelli, e lungamente trascurato all’interno dei nostri processi selettivi. Inoltre per raggiungere questo obiettivo si fa riferimento anche ad una “procedura urgente e transitoria di reclutamento a tempo indeterminato”, che orienti appunto l’intera macchina verso un pacchetto di competenze più ricco, in modo da valorizzare – pare di capire – “non solo chi sa le cose, ma è anche capace di insegnarle” (Gavosto).
Il testo è ricco di molte sfumature e di altre dimensioni, che riguardano tanto i dirigenti didattici che il personale Ata, ma il cuore della sfida proposta risiede proprio primariamente nel rilancio e nel ridisegno della funzione docente. Dunque questo accordo ci aiuta a mettere a fuoco come il metodo della decisione orientata verso la coesione sociale si mostri ancora decisamente vitale: in attesa di verificarne e di misurarne gli impatti. Dobbiamo nel contempo interrogarci se, per quanti hanno rivendicato l’importanza di un più ampio ‘patto sociale’, questo esito possa essere considerato sufficiente, oppure si rivelino utili ulteriori aggiustamenti.
Questo Patto, insieme anche al prototipo del pubblico impiego, muovono certamente nella direzione giusta. Essi indicano le potenzialità di una regolazione virtuosa in grado di combinare oggetti specifici e beni pubblici di varia natura (in questo caso il rilancio della funzione nazionale del sistema scolastico). Ma alcuni interrogativi – che travalicano questa specifica vicenda – restano in piedi. In primo piano quello relativo all’incerta volontà dei soggetti pubblici nell’ allargamento e rafforzamento del meccanismo del ‘governare per accordi’: in altri termini del riconoscimento alle parti sociali (e ad altri attori rilevanti) del ruolo importante di contribuire alla definizione ed implementazione di alcune politiche pubbliche.
Più in generale, e come conseguenza, non risulta chiaro quanto valore di strada maestra si voglia attribuire, ai fini delle scelte del Recovery Plan e delle più generali strategie dello sviluppo, all’opzione del ‘dialogo sociale trilaterale’. Un dialogo – incarnato in passato dalla ‘concertazione’ – legato a suo tempo alle politiche dei redditi e all’impianto di misure regolative, ma che attende di essere pienamente messo alla prova dell’innovazione tecnica e delle politiche di dinamismo organizzativo che oggi sono diventate prioritarie.
Mimmo Carrieri