La destra al governo non hai mai fatto mistero di voler neutralizzare una volta per tutte lo spettro della sinistra nel sistema della produzione culturale di questo paese e dal suo insediamento rivendica l’assalto al fortino con un patchwork di interventi. Dopo la lottizzazione del Centro Sperimentale di Cinematografia inserita di soppiatto nel decreto Giubileo e la vicenda degli improvvisi cambi di vertici al Teatro di Roma, arriva la modifica della Legge Cinema (Franceschini) e, nello specifico, la riforma del tax credit inserita nella Legge di Bilancio al comma 54. Riforma che, pure nella bontà delle sue intenzioni – sostanzialmente un riordino dei costi – ,va a incidere pesantemente sui già fragili equilibri economici su cui si basano le produzioni indipendenti italiane per mandare avanti i propri progetti e mettendo contemporaneamente in fortissima difficoltà migliaia di lavoratori che da questi progetti dipendono. Il blocco del tax credit, in attesa che la riforma venga approvata in via definitiva, significa blocco delle produzioni – dei set, per intenderci – e quindi sospensione di ogni attività lavorativa a essi collegata.
In realtà la notizia non è fresca di giornata, perché è da quasi un anno che questo minuetto si protrae tra comunicati, voci di corridoio, interviste, lettere e proclami. Ma all’indomani della cerimonia dei David di Donatello, dove nessuno ha fatto parola di una vicenda che ha sollevato la preoccupazione degli addetti ai lavori e segnata più che altro dalla polemica per l’inadeguata gestione della premiazione, proviamo a rimettere in fila gli episodi della serie.
In principio ci fu la razionalizzazione delle risorse con la riduzione del fondo cinema (istituito all’art.13 della legge n. 220/2016), che dai 746 milioni del 2023 è passato ai 696 milioni del 2024. Un taglio del 5% “che hanno avuto tutti i dicasteri” da tributare al ministero dell’Economia, precisa la sottosegretaria Lucia Borgonzoni (cui tuttavia andrebbero aggiunti anche altri 14 milioni che “verranno invece spostati ad altre voci sempre della cultura”). Ma, si cita dalla Legge di Bilancio, “tanto premesso non si hanno rilievi da formulare dal momento che il Fondo opera comunque nell’ambito della dotazione prevista a bilancio”.
Benché opinabile, in realtà non è questo il vero incidente scatenante che ha fomentato lo scontento e la preoccupazione delle associazioni di categoria. La questione, secondo il capo del Ministero della Cultura, Gennaro Sangiuliano, è che in Italia si producono troppi film con sostegno pubblico, tante opere che non sono mai state distribuite, o che sono state distribuite poco in modo da aggirare gli obblighi di programmazione in sala, o che solo in quattro gatti hanno visto. Il che si traduce in uno scialo di risorse pubbliche che vanno, appunto, razionalizzate. E c’è poi il problema di registi, sceneggiatori e attori indebitamente strapagati. E quindi che si fa? Diamoci un taglio.
In una lettera indirizzata al quotidiano Il Foglio, Sangiuliano spiega le ragioni di questa “rivoluzione” (come titola la pubblicazione) del tax credit nel cinema, il sistema di agevolazione fiscale a copertura delle spese per lo sviluppo, la produzione, la distribuzione nazionale e internazionale di film, opere tv, opere web, videogiochi e per l’apertura o ristrutturazione di sale cinematografiche, per i costi di funzionamento delle sale cinematografiche e per le industrie tecniche. Un sistema che dalla sua istituzione (art. 15 della legge n. 220/2016), ha permesso a tanti operatori del settore, soprattutto PMI (produttori indipendenti, la maggioranza), di andare avanti con il proprio lavoro senza ulteriori affanni economici. Nella lettera il ministro ammette sì che “il cinema […] è una delle più alte e immediate espressioni culturali” e che “il suo valore è fuori discussione, soprattutto se consideriamo la sua prospettiva di filiera industriale capace di generare ricchezza economica” ma, precisa, “il pieno riconoscimento del valore culturale ed economico […] non può esimerci dal denunciare, con forza, le storture e i veri e propri abusi che si sono generati in questi ultimi anni nell’ambito degli aiuti che lo Stato riconosce al cinema che, ricordiamolo sempre, sono soldi dei cittadini italiani”. Questi i dati snocciolati dal ministro del Mic: “Nel 2016 le risorse disponibili, sotto forma di contribuzione diretta e di tax credit, furono pari a poco di più 250 milioni di euro. Nel 2017, primo anno della nuova legge per il settore cinema, il fondo era di 400 milioni. Nel 2021, lo stanziamento in Legge di Bilancio è stato di 636 milioni poi aumentato, per gli anni 2022 e 2023, a 746 milioni. Al momento (9 aprile 2024, data di pubblicazione della lettera, ndr) le risorse sono invariate, fatta eccezione per un lieve taglio che vale per tutti gli ambiti del Ministero per esigenze di finanza pubblica”.
Quello che eccepisce Sangiuliano è che “a questo fiume di denaro pubblico non sempre ha corrisposto la qualità” per progetti cinematografici “non sempre di livello adeguato, né dal punto di vista artistico né tantomeno commerciale”. Secondo quanto riferito dal Ministero della Cultura, delle 459 opere cinematografiche tra 2022 e 2023, al 15 marzo scorso, non sono usciti in sala 145 film del 2022 e circa 200 del 2023. “Ciò non è solo un antieconomico spreco di denaro pubblico, ma anche un disincentivo alla vera creatività, che rischia di affogare in un mare di mediocrità”.
Secondo Sangiuliano, dunque, così concepita la riforma del tax credit punta a pareggiare i conti e contemporaneamente a ridare dignità al cinema. Ma in cosa consiste? In generale, la percentuale di spesa su cui applicare l’agevolazione per le opere cinematografiche è attualmente al 40%, tuttavia l’aliquota può scendere “per esigenze di bilancio” o “in relazione alle dimensioni di impresa o gruppi di imprese” nonché “in relazione a determinati costi eleggibili o soglie di costo eleggibile, ferma rimanendo la misura massima del 40 per cento” (comma 54 della Legge di Bilancio). La sottosegretaria Borgonzoni ha parlato di “descalator legato agli investimenti. La valutazione parte dal fatto che un film da 30 milioni non può beneficiare di un 40% come uno da 10. Inserire un parametro decrescente senza creare problemi al settore e lasciandolo competitivo rispetto ai mercati nostri diretti competitor”. Per l’accesso al tax credit, spiega nel dettaglio la sottosegretaria a Valerio Cappelli del Corriere della Sera, vengono definiti due “criteri selettivi”: il primo destinato a opere commerciali, che hanno mercato e devono avere in modo preventivo la copertura del 40% del costo – “Così un film arriva al ministero con l’avallo di un finanziatore che ha creduto nella bontà del progetto” -; il secondo criterio riguarda opere prime e seconde, film da festival che nel linguaggio ministeriale vengono definiti “difficili”, e start up. In questa categoria l’accesso al fondo è automatico.
Il limite massimo per un film italiano resta di 9 milioni, mentre per quanto riguarda i film “piccoli e medi con problemi di liquidità”, il 70% del finanziamento ministeriale sarà dato in anticipo e il 30% a chiusura del progetto (a differenza di prima che vedeva un anticipo del 40% e un saldo del 60% a rendicontazione). Per la senatrice leghista non si tratta di una “spedizione punitiva”, ma di “nuove norme” che “servono a impedire che si possano fare film tanto per farli, magari con produttori improvvisati”.
Per quanto riguarda le produzioni internazionali, che si sono moltiplicate grazie al tax credit, lo sgravio sarà maggiore se utilizzeranno attori, sceneggiatori o registi italiani. Inoltre, riprendendo la polemica innescata da Pierfrancesco Favino all’ultimo festival di Venezia, che lamentava l’”appropriazione culturale” da parte delle produzioni estere e il mancato coinvolgimento di attori italiani in storie italiane prodotte da altri paesi, una novità del decreto riguarda infatti l’istituzione di un finanziamento ad hoc di 52 milioni per film su grandi personaggi nostrani realizzate nel nostro paese interpretati, appunto, da attori italiani. “Ma non parlerei di autarchia”, precisa Borgonzoni.
C’è poi tutta la vicenda della modifica del TUSMA (Testo Unico dei Servizi di Media Audiovisivi) che prevede l’abbattimento delle quote d’investimento obbligatorie per Broadcaster e OTT a investire in film, serie e documentari italiani. In particolare, come ben spiegato da Cristiana Paternò su Cinecittànews, le osservazioni del Parlamento prevedono che le emittenti, diverse dalla tv pubblica, riservino alla produzione o acquisto di opere europee prodotte da produttori indipendenti una quota dei propri introiti netti annui in Italia del 10% rispetto alla precedente previsione che indicava una quota “non inferiore al 12,5%”. Di contro sale invece da “almeno” il 50% al 70% la quota dei predetti investimenti da destinare ad opere italiane. Scende invece all’1,75%, dal precedente 3,5% degli introiti netti, la sotto-quota “italiana” riservata ai produttori indipendenti. Per quanto riguarda invece i “media audiovisivi a richiesta”, scende al 16%, dal 20%, la quota di introiti da destinare agli investimenti in opere prodotte dagli indipendenti. Anche per le piattaforme sale invece dal 50% al 70% la quota riservata alle opere di espressione originale italiana. E scende da un quinto a un decimo la sotto-quota per i produttori indipendenti.“Se approvate così come sono, le modifiche normative rafforzerebbero ulteriormente la posizione dominante dei giganti del settore generando un effetto devastante a carico dell’industria cinematografica e audiovisiva italiana, che negli ultimi anni ha mostrato tutta la sua vitalità e capacità anche sui mercati internazionali”, denunciano Confartigianato Cinema e Audiovisivo, Doc/it – Associazione Documentaristi Italiani e PMI Cinema Indipendente.
Quindi, dopo una stagione post-pandemica di grande successo per il cinema, cui è seguita una contrazione di mercato, è sopraggiunta un’ondata di blocchi e modifiche dei fondi pubblici e rimodulazione degli investimenti privati a fronte di cui molte produzioni sono state sospese o rinviate. In assenza di chiarezza su queste risorse, sulle regole e sulle tempistiche, anche gli investimenti stranieri rischiano di essere dirottati in altri paesi. E a essere più colpite, naturalmente, sono le produzioni indipendenti PMI. A tutte queste intenzioni conative di ministri e sottosegretari, che per ora tali restano viste le tempistiche, sono infatti appesi penzoloni i destini di migliaia di lavoratori dell’audiovisivo già di per sé discontinui. Registi, sceneggiatori, agenti, attori, distributori, esportatori, festival, musicisti, produttori, tecnici paralizzati da questo stallo burocratico: impiegati in 9.000 imprese del settore, la stragrande maggioranza PMI; 95.000 posti di lavoro diretti, 114.000 nelle filiere connesse. La forza lavoro del settore è più giovane e con una percentuale di donne impiegate maggiore rispetto alla media nazionale. Il fatturato generato è di 13mld di euro, il 10% del totale europeo. L’Italia, quindi, si piazza al quarto posto nella classifica dei mercati di riferimento in Europa, il terzo per produttività del lavoro (dopo Germania e Francia). “Numeri che testimoniano la grande dimensione del settore, che sviluppa un moltiplicatore economico di 3.54 euro di cui beneficia l’intera economia nazionale, oltre a creare e promuovere l’immagine del Paese nel mondo”, fanno notare i rappresentanti delle principali associazioni di categoria nel corso di un’affollata conferenza stampa (1.500 presenti) convocata al cinema Adriano di Roma lo scorso 5 aprile dal titolo “Vogliamo che ci sia ancora un domani” (sì, il riferimento è all’acclamato film di Paola Cortellesi). L’obiettivo delle associazioni aderenti è quello di far sentire “la voce dell’industria cinematografica e audiovisiva indipendente” e “chiedere formalmente al Ministro Gennaro Sangiuliano, alla sottosegretaria Lucia Borgonzoni e al direttore generale Nicola Borrelli di considerare urgentemente le proposte del settore e promuovere un incontro a breve per attuare le necessarie riforme in tempi rapidi”. C’è bisogno di “certezze: regole, tempistiche e risorse” per far ripartire l’industria, sottolineando che “da una situazione di piena occupazione e forte crescita in tutti i segmenti della filiera, siamo oggi di fronte a una vera e propria emergenza con molte produzioni rinviate o cancellate”.
Le associazioni di categoria rivendicano l’importanza dell’intervento pubblico e la tutela della produzione indipendente, nonché la salvaguardia di fonti produttive eterogenee e la ricchezza di creazioni intellettuali diversificate. Nello specifico, il tax credit è rilevante perché “è una leva economica e occupazionale; stimola la crescita del settore, incrementando l’attrattiva culturale e turistica del Paese, rafforzando l’identità nazionale e lo stile di vita italiano; il credito di imposta è cresciuto perché sono cresciuti gli investimenti del mercato”. E poi un po’ di fact checking sui luoghi comuni: troppi titoli italiani? Nel 2022 in Italia sono stati prodotti 176 film di fiction (in Francia 191); film che incassano poco? Nel 2023 i film italiani (comprese coproduzioni) hanno incassato 112 milioni di euro, quota nazionale 24% (in Europa Italia seconda solo alla Francia); il tax credit è sinonimo di cinema assistito? Con un moltiplicatore di 3.54 è tra gli investimenti più virtuosi che lo Stato possa fare; il sistema è perfetto? Sono necessari interventi correttivi, e quindi dialogo delle associazioni con il governo.
Ma la preoccupazione è anche per i livelli occupazionali che, come segnalano i sindacati, “stanno precipitando, con molti lavoratori costretti a ricorrere alla indennità di disoccupazione (Naspi) e molti teatri di posa vuoti se non per qualche produzione straniera”. La Slc-Cgil, il sindacato dei lavoratori della comunicazione della Cgil, si appella direttamente al Governo a tutela del lavoro e delle produzioni in cui sono coinvolti oltre 160 mila lavoratrici e lavoratori del settore audiovisivo.
“La mancata apertura della finestra del tax credit sta provocando un fermo preoccupante delle produzioni nazionali ed internazionali sia cinematografiche che televisive, con tanti lavoratori ora in difficoltà”, spiega a Il diario del lavoro Sabina Di Marco, segretaria nazionale della Slc-Cgil.
“Come sindacato riteniamo sia fondamentale che il tax credit abbia una funzione premiante per le produzioni virtuose, quindi che ci sia un “di più” per coloro che applicano il contratto”. Il secondo fattore qualificante, continua Di Marco, dovrebbe consistere in una sorta di premialità alle produzioni: “Cioè il tax credit deve avere anche una quota parte che viene erogata sulla base del lavoro, quindi con delle percentuali che abbiano a che fare con quanti lavoratori sono impegnati. Si tratta di un collegamento con il lavoro in senso proprio, con la sua quantità e qualità, perché se il tax credit viene conteggiato sui compensi, i minimi sindacali stabiliti in fase di trattativa dovranno essere più alti”.
“Se i lavoratori vengono pagati meglio – precisa -, se noi riusciamo a chiudere i contratti e ci danno un aiuto dicendo che è sui contratti che c’è un aumento del tax credit, per noi è una cosa molto positiva. Quindi noi spingiamo affinché il tax credit vada della direzione del lavoro, della sua regolazione: contratti, rinnovi e che tutto sia correlato anche agli aumenti economici che noi mettiamo”.
“Noi rappresentiamo tutto il mondo del lavoro in questo settore, non soltanto il cinema, quindi il tema vero è aumentare le risorse per una produzione culturale che sia più orientata all’idea di prodotti che siano anche fruibili”. In questo senso, ci sono degli elementi di verità nelle motivazioni addotte dal Mic e dal Parlamento. Ma resta il fatto che “pensiamo che ci debba essere una logica che faciliti l’accesso a praticare queste professioni, che ci debba essere pluralismo culturale. Ed è forse questo il grande tema: fare in modo che chi lavora alla rappresentazione della società italiana sia il più possibile plurale”, conclude Di Marco. Che, in sostanza, è quanto sostenuto anche dal Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in occasione della presentazione dei candidati ai David al Quirinale.
Elettra Raffaela Melucci