Papa Francesco sarà ricordato certamente per le sue battaglie contro la guerra e a difesa dell’ambiente, a noi piace farlo per la sua grande attenzione al lavoro. Amava sottolineare che Giuseppe e Gesù erano falegnami, che gli apostoli, per lo più, erano pescatori, che suo padre era stato falegname e lui stesso muratore. Il lavoro, diceva, offre dignità al lavoratore, la peggiore povertà è quella di chi non riesce a guadagnare il pane per la propria famiglia, lavoro vuol dire progettare il proprio futuro. E’ amico dell’uomo, affermava, perché è un bisogno insopprimibile della persona. E credeva che tutti avessero diritto a un lavoro, come anche che fosse un delitto defraudare la retribuzione degli operai. E combatteva le troppe offese che gli vengono portate: il lavoro in nero, il caporalato, quelli che discriminano la donna e non includono chi porta una disabilità. Il lavoro precario, diceva, è immorale, è una ferita aperta.
L’amore per il lavoro lo portava all’attenzione verso chi non lo aveva e, quindi, agli ultimi, a quelli che chiamava gli scarti, perché così erano considerati da una società sorda e chiusa. I poveri, i diseredati, gli immigrati. Al centro della nostra attenzione, diceva, deve esserci l’uomo, oggi c’è il denaro. E per questo non amava la meritocrazia, lo considerava un disvalore, perché snatura e perverte una bellissima parola, il merito. Considerano il povero, affermava, demeritevole, quindi colpevole della sua situazione, anche se non ne porta alcuna responsabilità. E allo stesso modo, argomentava, il ricco è esentato dall’intervenire in aiuto ai bisognosi, perché non è colpa o responsabilità sua lo stato di povertà o il disagio degli altri.
Era contro tutti i muri, quelli che sono eretti tra gli stati per tenere lontano i poveri e i diseredati, ma anche quelli che tengono lontani chi la pensa in un altro modo. La sua filosofia era il dialogo, che, diceva, significa fare un tratto di strada assieme, fare delle cose assieme. Per questo voleva stare sempre in mezzo alla gente, privilegiando i poveri e gli ultimi. Perché solo così, diceva, è possibile vedere le cose con i loro occhi e capire i loro bisogni, le loro esigenze.
Amava il lavoro e amava il sindacato. Una bella parola, affermava, nata dalla fusione di due parole greche, dike, giustizia, e syn, insieme. Sindacato che però è esposto a rischi, a quello di smarrire la propria vocazione, il proprio compito, quello di dare voce a chi non ce l’ha. Il sindacato, amava affermare, è una sentinella sul muro della città del lavoro e deve badare a chi è dentro la città, ma anche a chi ne è tenuto fuori. Proteggere i lavoratori e i pensionati, diceva ai sindacalisti, è bene, ma è solo la metà del vostro dovere, siete tenuti a difendere anche gli esclusi, chi i diritti ancora non li ha. Può accadere, diceva, che la società non comprenda il sindacato, ma spesso ciò accade perché non lo vede lottare abbastanza nel “luogo dei diritti del non ancora”, nelle periferie esistenziali, tra gli scartati dal lavoro, tra gli immigrati, i poveri, coloro che vivono sotto le mura della città del lavoro.
Accusava il sindacato di essere a volte troppo simile ai partiti politici. E accusava il capitalismo per avere troppe volte dimenticato la natura sociale dell’economia. Ma non era contro gli imprenditori. L’imprenditore, diceva, è una figura fondamentale per una buona economia. Il problema nasce quando si trasforma in uno speculatore, e finisce per penalizzare anche gli onesti. La vocazione dell’imprenditore, diceva, è nobile se si mette a servizio del lavoro, in primo luogo offrendo occupazione: non un’occupazione qualsiasi, ma un lavoro che metta al centro la persona e la sua dignità. Il lavoro, affermava, è dignità.
Adesso Papa Francesco non c’è più. Ci resta questa grande eredità e la speranza che non vada dispersa.
Massimo Mascini