Credo che sarebbe inopportunamente consolatorio raccontarci che si è trattato del voto contro l’establishment espresso da una classe media impoverita e rabbiosa, come afferma l’analisi trendy del voto populista. Intanto occorrerebbe spiegare perché questo ceto medio decide di incazzarsi proprio quando le cose cominciano ad andare meglio: l’occupazione aumenta (non tornerò ad elencare i dati: sono noti), la Cassa Integrazione diminuisce drasticamente, la produzione industriale aumenta, per la prima volta i lavoratori autonomi hanno tutele confrontabili con quelle dei lavoratori dipendenti, diminuisce la pressione fiscale per imprese e famiglie, si allontana lo spettro di fallimenti bancari a catena che comprometterebbero i risparmi anche di chi strilla contro i “salvataggi” delle banche. Peraltro, paradossalmente, aumenta l’indice di fiducia delle famiglie. Quelle stesse che vanno a votare.
E poi: gli incazzati americani hanno votato contro l’establishment e per un candidato che comunque aveva un’apparenza “innovativa”, addirittura di rottura. Ma da noi chi è il Trump di questo referendum? Renzi era molto più innovativo dei leader del no, in alcuni casi autentiche cariatidi. Come fa il ceto medio inferocito e affamato di cambiamento a riconoscersi in un’opzione che dice: “non cambiamo niente”? E non sono certamente stati i risibili allarmi alla deriva autoritaria o gli strazianti lamenti per la fine del bicameralismo perfetto a smuovere le coscienze. Del resto chi elevava lamenti più alti era appunto chi nei recenti anni aveva con vigore rivendicato modifiche costituzionali assai simili a quelle bocciate ieri: D’Alema ai tempi della Bicamerale, delegittimata da magistrati che hanno svolto nei suoi confronti ruolo analogo a quello che lui ha avuto contro Renzi; Berlusconi col discorso alla Camera del 1995; la CGIL col documento approvato al Congresso del 2014 (andarsi a rileggere i documenti è sbalorditivo, ma la memoria storica in Italia viene generata e rimodellata ogni giorno dai media e dai social: troppa gente vive in un eterno presente, il cui passato è dimenticato e il cui futuro è sempre una rabbiosa rivendicazione, mai un progetto). Tutti costoro, quando è stato il momento di tradurre in pratica, si son battuti perché nulla cambiasse. Le motivazioni addotte sono palesemente strumentali e implementate da falsi e menzogne; fanno eccezione quelle avanzate da studiosi e teorici rispettabilissimi ma innamorati, come spesso in Italia, del rispetto formale del canone più che dell’efficacia del canone sulla vita reale.
E d’altra parte: ma quanti dei NO popolari sono riconducibili alle pensose riflessioni dei costituzionalisti di cui sopra o all’indignazione per la derubricazione del Senato o alla sollecitudine per le sorti del CNEL? Sappiamo tutti benissimo che la stragrande maggioranza di questi elettori non conoscono assolutamente la Costituzione e non gliene importa niente. Che cosa hanno votato allora, e perché? Hanno votato contro. Ma contro cosa?
Contro il cambiamento! Perchè? Perchè non interessa il cambiamento, che implica progetto e responsabilità. La maggioranza del Paese è affascinata dalla rabbia, dal ribellismo, dalla lamentazione. L’eroe di questi (anche se naturalmente non lo sanno) è Masaniello, o i Lazzari del Cardinal Ruffo che affossarono la Repubblica Rivoluzionaria Partenopea.
E’ molto più gratificante potersi affacciare con un potere “altro” al quale si può rivendicare, pretendere, minacciare. E in fondo va bene così: perché mai prendersi la rogna di dovere assumersi responsabilità in prima persona, quando nel gioco tra potere e ribellione si possono aprire cospicui spazi in cui coltivare la clientela? Di fatto, il ribellismo e la clientela sono sempre andati a braccetto. O rivoluzione o niente. Quindi niente! Intanto ci arrangiamo…
Sarà questa tara genetica ad avere impedito al riformismo di avere successo nel Paese?
Il Governo Renzi è stato l’ultimo tentativo (speriamo non “ultimo”) a tentare di riformare il Paese. Il Paese gli ha risposto di non volere essere riformato. Legittimo.
Un’ultima nota: a Milano, la più europea delle città italiane, il SI ha vinto. Il Paese si sta spaccando in due?