Ci si avvia, lentamente ma forse inesorabilmente, verso lo sciopero contro il governo Meloni. Cgil e Uil sembrano decise a dare battaglia. La Cisl tituba, da un lato vuole mantenere fede alla sua vocazione contrattualista, che la spinge a dare peso a ciò che si è ottenuto più che a ciò cui si è dovuto rinunciare, dall’altro sa che su alcune cose, le pensioni prima del resto, ha portato a casa poco. Ma, che la Cisl scenda al loro fianco o meno, le altre due confederazioni sembrano decise. Poi si vedrà in cosa si sostanzierà la protesta, se in uno sciopero generale o in manifestazioni regionali o territoriali. Landini e Bombardieri proclamarono lo sciopero generale contro Mario Draghi, sarebbe strano se non facessero altrettanto adesso.
Si deciderà nel giro di qualche giorno, ma che ci sia una protesta forte del movimento sindacale, unito o separato, è certo. Ed è un brutto segnale, soprattutto se le confederazioni sindacali dovessero dividersi, perché sarebbe un altro passo verso la polarizzazione che si sta manifestando da tempo. Sempre più sentiamo parlare di sindacato buono e sindacato cattivo, uno riformista, l’altro antagonista. Nulla di più sbagliato e, soprattutto, di più dannoso. I manicheismi non servono a nulla, la realtà è sempre più complessa, facilitare le scelte obbligando a dividersi tra il bianco e il nero non porta lontano.
Come è accaduto per il salario minimo legale, a proposito del quale si è banalizzato anche troppo. Tutti a dire che era indispensabile, oppure dannoso, sempre bianco o nero, mentre la verità è che la contrattazione e il salario legale non sono strumenti alternativi. Lo ha spiegato con molta precisione Walter Cerfeda in un intervento su Il diario del lavoro, dall’alto della sua lunga esperienza al vertice del sindacato europeo. Del resto, se il sindacato tedesco, che forse è il più forte e capace in Europa, ha accettato di unire alla contrattazione anche il salario minimo una ragione ci sarà. E non tenerne conto è stato un errore che si pagherà nel tempo.
Certo, il momento difficile che stiamo vivendo, con tutte le transizioni che dobbiamo attraversare, chiamerebbero all’unione di tutte le forze più che alla loro divisione. E invece tutto va proprio nell’altra direzione. I sindacati stentano a trovare l’unità, sembrano dirigersi verso obiettivi differenti. Il governo sposa una linea sempre più antisindacale, nonostante le sbandierate radici della premier nella destra sociale, che l’avrebbero condotta a cercare l’accordo con il sindacato o, quanto meno, un’autentica interlocuzione, che non c’è mai stata. Manca qualsiasi traccia di politica industriale, come dimostrano i problemi che sorgono e si rafforzano in ogni settore, quello dell’auto, della siderurgia, degli elettrodomestici, dell’edilizia.
Servirebbero comportamenti adeguati alla gravità dei problemi, ma non ce ne è ombra. Pesano le assenze, soprattutto quella di Confindustria, che nei momenti di difficoltà del paese ha sempre costituito un punto di riferimento importante, spesso indicando una soluzione a problemi che pure apparivano insolubili, ma adesso è entrata in un cono d’ombra, di più, sembra disinteressarsi a quanto accade sulla scena politica ed economica del paese. E anche per questo ha causato sconcerto l’ultima decisione di Carlo Bonomi che in una sola volta ha sostituito il responsabile dell’ufficio stampa, e fin qui ci stiamo, ma anche la direttrice generale, Francesca Mariotti, per sostituirla con un diplomatico.
Sconcerto perché Bonomi, al quale va attribuita la responsabilità della scomparsa della confederazione dalle scene politiche, è agli ultimi mesi della sua presidenza. Già circolano i primi nomi di chi potrebbe sostituirlo, comunque sia tra sei mesi lascerà la confederazione. Forse sarebbe stato meglio, molto meglio, lasciare la scelta del nuovo direttore generale al nuovo presidente. Anche perché questa scelta è direttamente legata alle problematiche che dovranno essere affrontate. Guido Carli scelse Paolo Savona poiché doveva ristabilire, su linee rigidamente economiche, la strategia di Confindustria alla fine dei difficili anni 70. Al contrario, Paolo Annibaldi salì al vertice della confederazione quando i problemi sindacali erano al centro della scena politica. Adesso Bonomi preferisce un diplomatico, forse intende lanciare Confindustria in un’avventura internazionale e ha bisogno di un valido supporto. Ma, comunque sia, questa era una cosa che doveva decidere chi si prenderà la responsabilità dei prossimi quattro anni, non chi sta uscendo di scena, senza troppi applausi. Un motivo in più per essere preoccupati di quanto sta avvenendo.
Massimo Mascini