Nel corso di un recente seminario tenuto al Dipartimento di Scienze Politiche e Giuridiche dell’Università di Messina, con l’Ordine degli Avvocati e il Centro Donne Anti-Violenza, si è discusso del nuovo istituto del congedo per le lavoratrici vittime di violenza.
In quella sede è stato evidenziato come il fenomeno della violenza nei confronti del genere femminile si ricolleghi a quello della discriminazione a tutti i livelli: dall’ambito familiare a quello lavorativo, dal contesto educativo a quello politico, così come ci viene ricordato dalla stessa Convenzione di Istanbul del 2011 e dalla risoluzione 54/134 approvata nel 1999 dall’Assemblea Generale dell’Onu, che ha proclamato il 25 novembre “Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne”.
Secondo questa tendenza Global Law il quadro normativo italiano ha ampiamente riconosciuto la violenza sulle donne come reato, conseguente alla violazione dei diritti umani e di discriminazione, associando, di recente, per quanto riguarda il mondo del lavoro, una ulteriore linea di azione che guarda all’aspetto sociale del sostegno alle donne vittime nella loro vita quotidiana. Il riferimento è all’art. 24 del d.lgs. 80/15. Il decreto, attuativo della legge 183/14 infatti, contiene “Misure per la conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro” e, in particolare, l’articolo 24 detta norme sul congedo per le donne vittime di violenza di genere.
Tale articolo dispone che:
a) la lavoratrice dipendente pubblica o privata (con esclusione, non si comprende invero il motivo, delle lavoratrici domestiche) che siano state inserite in percorsi di protezione relativi alla violenza di genere, secondo l’iter previsto dalla legge 119/13, di conversione in legge del citato D. L. 93/13, ha il diritto di astenersi dal lavoro per motivi connessi al suddetto percorso di protezione per un periodo massimo di tre mesi;
b) le lavoratrici titolari di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa inserite nei medesimi percorsi di protezione di cui sopra, hanno diritto alla sospensione del rapporto contrattuale per motivi connessi allo svolgimento del percorso di protezione, per il periodo corrispondente all’astensione, per un massimo di tre mesi.
L’articolo disciplina l’iter per la fruizione del congedo disponendo che, durante il congedo, la lavoratrice ha diritto a percepire un’indennità corrispondente all’ultima retribuzione (limitatamente alle sue voci fisse e continuative) e il periodo stesso è coperto da contribuzione figurativa.
Il periodo in questione deve altresì essere computato ai fini dell’anzianità di servizio a tutti gli effetti, ivi compresi il computo delle ferie maturate, della tredicesima mensilità e del TFR. Il congedo può essere usufruito su base oraria o giornaliera nell’arco temporale di tre anni, fermo restando che – salvi accordi sindacali più favorevoli – la fruizione su base oraria è consentita in misura pari alla metà dell’orario medio giornaliero del periodo di paga mensile immediatamente precedente a quello nel corso del quale ha inizio il congedo. La norma prevede, infine, che tali lavoratrici hanno diritto alla trasformazione del rapporto di lavoro a tempo pieno in lavoro a tempo parziale, verticale od orizzontale, ove disponibile in organico e, al contempo, che il rapporto di lavoro a tempo parziale deve essere nuovamente trasformato, a richiesta della lavoratrice, in rapporto di lavoro a tempo pieno.
Anche per tale istituto nel nostro Ordinamento lavoristico opera il sistema delle fonti, con il particolare feedback tra legge e autonomia collettiva, considerato che molti accordi tra imprese e sindacati sono intervenuti per disciplinare tale fattispecie, nonché il rinvio per l’applicazione ad una circolare Inps: la 16 aprile 2016.
Si può affermare che il nuovo istituto vuole contribuire a rendere effettivo sui luoghi di lavoro non solo il binomio autorità-libertà ma anche quello autorità-dignità, imponendo il superamento della concezione che vuole la dignità in campo giuridico quasi come categoria di principio, ma sprovvista di pratica tutela, richiamando la necessità di assegnare ad essa una funzione positiva non solo come strumento di controllo delle codificazioni legislative, ma pure quale limite all’autonomia privata, in questo caso in campo lavoristico, sul presupposto della forza espansiva dei principi costituzionali, riletti alla luce del diritto vivente.
La disposizione in questione pone al centro la persona e offre la conferma sul piano normativo della moderna riconsiderazione del rapporto obbligatorio di lavoro come rapporto complesso, inteso non più nell’accezione romanistica di strumento per l’esclusiva trasmissione di utilità economiche, ma anche (e soprattutto) di valori quali la libertà, l’equità economica, la dignità delle persone, la tutela dei generi, per accantonare una lettura dei diritti della persona nei termini statici del diritto reale e valorizzare il diritto soggettivo quale indice normativo della soggettività della persona che si trasforma essa stessa in diritto, il cui oggetto va individuato nell’obiettivo del pieno sviluppo della persona umana, secondo l’art. 3, co. 2, della Costituzione, quale sintesi e fondamento dei diritti inviolabili.
G. Maurizio Ballistreri