Poco più di un mese fa, solo il 23 di settembre Governo e parti sociali sembravano a un passo dal patto sociale. Bonomi offriva la mano per un’intesa a carattere generale, il presidente del Consiglio rilanciava parlando di contrattazione e magnificando le sorti e il futuro della contrattazione, il sindacato, più o meno sembrava assentire. Sono bastate queste poche settimane però per cambiare totalmente le prospettive. Gli imprenditori affermano che in queste condizioni e con questi interlocutori un accordo sui massimi sistemi non è possibile, e forse nemmeno uno su minimi sistemi. I sindacati rompono con il governo e minacciano lo sciopero generale, il premier si indispettisce e, forse, solo forse, abbandona una riunione con i sindacati perché non crede utile continuare a discutere. Ma cosa è successo? Quali malefici sono stati gettati sui protagonisti di queste infinita soap opera che sembra non finire mai? Ma, poi, è davvero rottura tra le parti e tra queste e il governo? C’è da dubitarne.
La prima cosa da mettere in chiaro per cercare di capire cosa sta succedendo, è che il governo sta per varare la legge di bilancio. Una volta si chiamava finanziaria, ma la sostanza non è certo cambiata con la definizione. Il governo si appresta a decidere come spendere un quantitativo di risorse economiche, stavolta di un certo spessore. E, naturalmente, si sono scatenati gli appetiti. Delle varie lobbies, certamente, dei partiti, che facciano o meno parte della maggioranza, e anche delle parti sociali. Il governo è tirato da una parte e dall’altra. Altro che giacchetta, gli strapperebbero di dosso tutti i vestiti se solo fosse possibile. Le richieste si affollano, come sempre, il governo resiste. Stavolta il governo ha un motivo in più per resistere, perché ha un obiettivo preciso, uno solo, rimettere in piedi l’Italia, ricostruire la propensione alla crescita della produttività. Ha dalla sua i miliardi di euro che gli presta o gli regala l’Unione europea, ma non può fallire e non può ritardare la sua azione. Deve andare in fretta verso l’obiettivo.
Di qui le frizioni e, forse, le incomprensioni. Quelle con i sindacati nascono da questa realtà. E non c’è da meravigliarsi se così va. Perché è giusto che i sindacati chiedano, è il loro mestiere, devono portare avanti gli interessi della parte che rappresentano, i lavoratori e se si tratta di pensioni, di ammortizzatori sociali, di gestione del mercato del lavoro, di formazione, avanzano le loro richieste. Che magari sono anche costose, anzi lo sono sicuramente, perché le nozze non si fanno con i fichi secchi. Chiedono e minacciano lo sciopero se le loro richieste non trovano soddisfazione. Loro poi hanno un motivo in più per protestare e magari anche arrivare allo sciopero generale. Perché bruciano ancora nello stato maggiore di Cgil, Cisl e Uil, le critiche che gli vennero da tante parti perché nel 2012, quando il governo Monti varò la riforma delle pensioni decisa da Elsa Fornero il sindacato non protestò, non riempì le piazze, non scese per strada a chiedere o pretendere qualcosa di meno duro. Non lo fece perché sapeva che era inutile, perché Monti non avrebbe potuto muoversi in maniera molto diversa, perché la situazione economica era terribile, perché anche loro avevano insistito perché arrivasse un governo nuovo, quale che fosse, a ridare un po’ di fiato al paese. Avevano ragione, ma le proteste furono fortissime, le recriminazioni non sono mai finite. Adesso che si riparla del sistema pensionistico firmato Fornero, la paura di un passo falso è forte e una reazione di un certo spessore nei fatti.
Quindi sindacati sul piede di guerra, governo deciso ad andare per la sua strada. Non è proprio la strada lastricata di rose che avrebbe portato al patto sociale che in tanti sognavano. Il pericolo è che in questo modo si allarghi la frattura che certamente esiste tra cittadini e autorità. Se la metà degli elettori non va a votare, se ogni sabato a Milano si scatena la piazza dei no Vax, se a Roma un manipolo di fascisti aggredisce la sede della Cgil, se accade tutto questo è evidente che la coesione sociale non è proprio dietro l’angolo. Il governo Draghi aveva preso questo impegno, di risanare l’economia, ma anche di tutelare la coesione sociale. Ora è vero che questi due obiettivi sono fortemente legati, che senza una ripresa dell’economia cade l’occupazione, calano i consumi, e così si sbriciola il legame tra governo e governati. Ma una maggiore attenzione verso le pulsioni dei cittadini non avrebbe certo guastato. I sindacati lamentano che il governo non ha cercato mai con loro una vera interlocuzione, gli imprenditori affermano che non hanno mai avuto una vera sponda con il sindacato, sordo alle esigenze delle imprese, il governo probabilmente si lamenta dell’incomprensione delle parti sociali che chiedono pur sapendo che non possono avere. Forse una maggiore attenzione verso le esigenze degli altri, da parte di tutti, avrebbe potuto portare a un risultato diverso. Forse il patto sociale non doveva solo essere evocato nell’assemblea di Confindustria, ma anche cercato in un’interlocuzione a tratto molto frequente. Forse, forse. La cosa migliore sarebbe certamente parlarsi, dialogare, cercare di capire. Senza rinunciare al proprio ruolo, ma puntando a un obiettivo comune più alto. Forse ci si può riuscire.
Massimo Mascini