Per una combinazione di circostanze ho avuto il privilegio di iscrivermi fin da giovane alla direzione del sindacato. A metà degli anni ’60 era componente del Comitato Centrale della Fiom. Era un organismo abbastanza ristretto a qualche decina di dirigenti territoriali e storici capi operai eletti nelle commissioni interne delle grandi fabbriche. Raggiunse il numero di 110 solo nel congresso del 1970. Si riuniva a Milano nel Salone della Camera del lavoro con una certa frequenza. Milano allora era la capitale dell’industria manifatturiera d’Italia, ma c’erano anche delle ragioni economiche per riunirsi in quella città: la maggioranza dei componenti veniva dalle province del Nord. Ed erano in grado di raggiungere Milano senza dover sostenere importanti spese di viaggio e di pernottamento. Poi allora si viaggiava in treno in seconda classe. Vi erano anche due membri che venivano da Palermo. Per loro partecipare alle riunioni del Comitato Centrale era un’impresa che richiedeva una settimana, durante la quale organizzavano sia all’andata che al ritorno una serie di appuntamenti e incontri lungo tutta la Penisola con una immancabile sosta a Roma per recarsi in Cgil o in qualche ministero.
Le riunioni erano, per me, un momento importante. La Fiom aveva due segretari generali, il socialista Piero Boni e il comunista Bruno Trentin, ma anche i segretari nazionali avevano una storia personale di notevole profilo. Anche i dirigenti provinciali avevano tante cose da insegnare a me giovane alle prime armi che proveniva dall’Università. Il dibattito era una cosa seria; gli interventi erano seguiti con interesse e se era il caso si prendevano appunti. C’era una certa rivalità tra la federazione di Milano e quella di Torino. I milanesi erano più pratici, mentre i torinesi erano annichiliti dalla Fiat. E cercavano una copertura per le loro difficoltà a sviluppare l’iniziativa rivendicativa in quella città nella città, manifestando un rigore che spesso si confondeva con l’ideologia dei rapporti di classe. In generale erano quasi tutti ex licenziati dalla Fiat. Appartenenti ad un’aristocrazia operaia anche sul piano professionali, molti di loro avevano combattuto nella Resistenza anche per la formazione che avevano avuto dalle famiglie durante il fascismo. Il segretario di Torno si chiamava Tino Pace, ma il nome era in diminutivo di Aventino. Il segretario di Milano si chiamava Annio Breschi e vantava la potenza di fuoco dell’organizzazione da lui diretta. Avvertiva però un complesso nei confronti del rigore dei torinesi, tanto che si rivolgeva a loro con questa battuta: ‘’voi avete avuto Gramsci, noi solo Turati’’.
Tra i componenti torinesi del Comitato Centrale non poteva mancare il responsabile della V Lega dove era ricompreso lo stabilimento di Mirafiori con la storica catena di montaggio. Ricordo soltanto il cognome, Musso. Interveniva a lungo in ogni riunione spiegando meticolosamente ciò che era avvenuto in Fiat. Per noi era una specie di supplizio perché Musso spiegava a lungo una serie di episodi che sembravano insignificanti: qualche piccola protesta spontanea in un reparto che aveva portato ad una revisione dei tempi assegnati di cottimo; una assemblea con una discreta partecipazione ancorché svolta rigorosamente fuori della fabbrica e alla fine dell’orario di lavoro nel corso della quale si erano fatti dei nuovi iscritti; delle previsioni incoraggianti per la prossima elezione delle commissioni interne, con nuovi candidati forse anche tra gli impiegati. Allora era facile fare dell’ironia. Ricordo che avevo aggiustato per l’occorrenza i versi di un poeta del ‘700 in questo modo: ‘’ovunque il guardo io giro immensa Fiat di vedo’’.
Ripensando a quell’esperienza oggi mi rendo conto che aveva ragione Musso; era giusto rappresentare una situazione in cui il lavoro certosino dei sindacalisti torinesi non era inutile, ma serviva a costruire, magari nel tempo, un cambiamento nei rapporti di forza con il padrone per antonomasia. Per Musso era un dovere rendicontare il proprio lavoro, mettendone in evidenza i limiti, quando sarebbe stato facile e giustificato scaricare tutte le responsabilità sulla politica repressiva dell’azienda C’era poi un particolare che mi ha sempre dato da pensare: davanti agli operai -quasi sempre meridionali – i dirigenti torinesi conversavano tra di loro in un dialetto stretto ed incomprensibile in modo da non farsi capire, perché in fondo ritenevano che quei lavoratori non avessero un’adeguata maturità di classe. Sarebbe poi come sparare sulla Croce rossa ricordare la reazione della Cgil dopo la sconfitta nelle elezioni della commissione interna alla Fiat nel 1955. I voti alla lista della Fiom-Cgil crollarono dal 65% al 36%; la Fim-Cisl salì dal 25% al 41%, la Uilm-Uil dal 10% al 23%. Fu Giuseppe Di Vittorio che, nella ‘’storica’’ riunione del Comitato direttivo della Cgil del 26 aprile di quell’anno, condusse un’analisi coraggiosa e rigorosa, denunciando le intimidazioni, le rappresaglie e i licenziamenti che avevano annichilito la classe operaia. Ma oltre a tali elementi – che pure pesavano – il leader della Cgil si interrogò sugli errori della Fiom e sul suo distacco dalla realtà delle fabbriche che stavano diventando sempre più moderne e caratterizzate da specificità non raccolte dalla contrattazione interconfederale e nazionale di categoria. Val la pena di ricordare le sue parole, tuttora di una modernità sconcertante: ‘’Il progresso tecnico e la crescente concentrazione monopolistica dei mezzi di produzione, accentuano continuamente queste differenze, determinando condizioni di vita e di lavoro estremamente differenziate fra vari gruppi di operai anche in seno alla stessa azienda. Il fatto che la Cgil – proseguiva Di Vittorio – sottovalutando questo processo di differenziazione, abbia continuato negli ultimi anni a limitare la sua attività salariale quasi esclusivamente alle contrattazioni nazionali di categoria e generali, è stato un grave errore… La situazione oggettiva ci obbliga – concludeva – a far centro della politica salariale la fabbrica, l’azienda’’.
Allora, le parole avevano un peso. L’ammettere ex cathedra di aver compiuto un ‘’grave errore’’ (quando sarebbe stato molto più semplice e meno dirompente prendersela, al solito, con i padroni e magari anche con il governo) fu uno shock per centinaia di quadri. Ma l’autocritica aveva individuato il ‘’che fare?’’ per la riscossa. Mi scuso per essermi dilungato in riflessioni da vecchio signore nostalgico di un piccolo mondo antico ormai sommerso con i suoi miti, i suoi eroi e i suoi errori. Per me però è inaccettabile che per avere un quadro reale della stagione contrattuale in atto si debba scoprire quasi casualmente che alla fine del 2023 c’erano quasi otto milioni di lavoratori in attesa, talvolta da anni, del rinnovo contrattuale, mentre nel corso di questi mesi il numero si è dimezzato, con risultati retributivi di buon livello. Quando sento parlare qualche dirigente confederale (per fortuna non tutti e non quelli delle federazioni di categoria) ho sempre l’impressione che racconti le sue esperienze dopo un lungo soggiorno in un paese in via di sviluppo. Perché, per accorgersi che non esiste la società che descrive con riferimento all’Italia non occorre consultare complesse statistiche. È sufficiente uscire di casa e guardarsi intorno. Anche un venditore di tappeti si sforza di presentare nel migliore dei modi la merce che vende.
Giuliano Cazzola