Vabbè che la politica è l’arte del possibile, vabbè che non si può star lì a menare il can per l’aia quando le elezioni incombono, vabbè che nelle situazioni di emergenza bisogna saper fare di necessità virtù. Tuttavia la scelta di Enrico Letta di allearsi con Carlo Calenda, accettando per di più tutte le condizioni poste dal leader di Azione, non sembra una mossa vincente. Almeno oggi, visto il terremoto che sta provocando a sinistra, anche nella stessa sinistra del Partito democratico. Poi certo, i conti si faranno alla fine, ovvero alle elezioni del 25 settembre. Se per caso – e sottolineiamo per caso – il tandem Enrico-Carlo dovesse battere il centrodestra, anzi la destra, allora avrà avuto ragione il leader del Pd. Ma al momento possiamo solo registrare il fatto che quella coalizione di democratici e progressisti si sta sfarinando sempre di più.
E’ probabile che la Sinistra italiana di Nicola Fratoianni e i Verdi di Angelo Bonelli non faranno parte della squadra, rifiutando quel diritto di tribuna – cioè un posto nella lista proporzionale del Pd – che per loro sarebbe piuttosto umiliante. E che quindi sceglieranno di correre alle urne da soli o con altri compagni di viaggio, magari proprio con i Cinquestelle di Giuseppe Conte, che Letta non ha più voluto in quel famoso Campo largo sbandierato con grande enfasi come la vera alternativa e poi sepolto in un batter d’occhio dopo la non fiducia dei pentastellati al governo Draghi. Vedremo, ormai è questione di giorni, anzi di ore.
Ma il problema non riguarda solo il numero dei seggi, c’è una questione di fondo, molto più seria delle poltrone, che rischia di risultare un ostacolo insormontabile per mettere insieme la sinistra con Azione. Si chiama politica, che tradotta significa scegliere tra un’idea o l’altra su tutti i campi della nostra vita civile. Dall’ambiente al lavoro, dal tipo di produzione industriale a quale energia nel futuro, fino alla posizione sulla guerra (oggi in Ucraina, domani chissà), tutti temi che vedono Calenda da una parte e Fratoianni e Bonelli da quella opposta. Se questa è la situazione, appare molto difficile una ricomposizione in extremis anche se – ripetiamo – le vie della politica sono infinite.
La filosofia politica (chiamiamola così) che ha ispirato la scelta de segretario del Pd è nota, tanto nota da risultare ormai obsoleta: le elezioni si vincono al centro. Dunque Calenda è meglio degli altri perché può intercettare i voti dei quegli elettori moderati, delusi da Forza Italia e magari anche dalla Lega. Maria Stella Gelmini e Mara Carfagna, che hanno lasciato Berlusconi per entrare in Azione, sarebbero i prototipi di questa strategia. Ma è sul serio così, oggi in Italia?
I sondaggi dicono il contrario, altrimenti non si spiegherebbe il motivo per cui da molti mesi i Fratelli d’Italia risultano essere il primo partito con il 23-24 per cento dei consensi. Giorgia Meloni non è certamente una politica di centro, tutt’altro: è di destra, orgogliosa di esserlo, lo dice, lo spiega, a volte lo urla nelle piazze, e si comporta come tale. Eppure piace a un quarto degli italiani, più di Matteo Salvini e di Silvio Berlusconi, che scontano il fatto di aver appoggiato il governo Draghi insieme al centrosinistra. Quindi di essersi spostati al centro. Meloni invece è rimasta a destra, e da destra ha lanciato la sua offensiva politico-elettorale, senza muoversi da lì. Se questa alleanza riuscisse a vincere la battaglia elettorale sarà dunque per merito suo.
Dall’altra parte, invece, si vive ancora con in testa il miraggio del Centro. Che ovviamente non è da buttar via, è ovvio che servirebbe anche una parte di quegli elettori per tentare di vincere, ma è altrettanto ovvio – o almeno dovrebbe esserlo – che più di sposti da quella parte, più sposi quelle idee, più rinunci alle tue e più gli elettori preferiscono il prodotto originale rispetto alle imitazioni, oltretutto arrivate fuori tempo massimo.
E allora viene in mente una famosa frase che Walter Veltroni disse in un’intervista fatta nl 1999 al “Manifesto”. Al governo c’era Massimo D’Alema, che pur di restare a palazzo Chigi si accordava con tutti i centristi su piazza, da Cossiga a Mastella. Veltroni, che all’epoca era leader dei Ds (il Pd non era ancora nato), disse quattro parole: “Meglio perdere che perdersi”.
Riccardo Barenghi