“Simpatico, ironico, gioviale, un’innata bonomia (a me è particolarmente simpatico perché ama gli animali (una volta, a proposito di animali, mi rispose ansimando al telefono e mi spiegò che aveva portato in braccio fino al terzo piano il suo vecchio cane, dopo la passeggiata, ndr) e perché abbiamo entrambi un figlio musicista), Giuliano, ai tempi della Cgil, era un interlocutore privilegiato per noi giornalisti sindacali, in particolare Vittoria Sivo, Massimo Mascini ed il sottoscritto, i tre che lui stesso aveva definito «la cupola». Intollerante ad ogni forma di ipocrita riserbo o di residuale centralismo democratico, aveva scelto di aprire porte e finestre e di rendere pubblico quello che molti altri colleghi avrebbero preferito restasse riservato. Un’assunzione di responsabilità chiara, netta, precisa. Un modo per non relegare la battaglia delle idee nelle segrete stanze del potere. A lui si deve, ad esempio, il colpo giornalistico, che fece proprio Mascini, sulla decisione di giubilare Antonio Pizzinato, allora segretario generale della Cgil”. Ecco che cosa scriveva di me Marco Cianca – l’amico che ci ha lasciato – nella sua presentazione al mio E-Book “Storie di sindacalisti”. Anzi fu Marco a suggerirmi il titolo. E’ tutto vero: la definizione della “cupola” rivolta ai tre “primi inter pares” del giornalismo sindacale. Con molta finezza Marco ricordava anche che io ero la loro talpa all’interno della Cgil, equilibrato nel distribuire gli scoop. Raccontai a Massimo Mascini che stava delineandosi una “congiura” nei confronti di Antonio Pizzinato di cui erano protagonisti autorevolissimi segretari regionali e che venne allo scoperto, poco dopo, in una riunione del Comitato Direttivo, quando un ordine del giorno scritto a Claudio Sabattini – che indirettamente era una mozione di sfiducia nei confronti di Pizzinato – fu respinto col voto determinante dei socialisti, mentre la maggioranza dei comunisti votò a favore. Pizzinato ne trasse le conclusioni e si dimise, pur rimanendo in segreteria. Così la Cgil fu in grado di eleggere segretario generale Bruno Trentin correggendo l’errore compiuto da Luciano Lama che lasciando nel 1986 la segreteria generale della confederazione, non aveva voluto scegliere tra Sergio Garavini e Bruno Trentin puntando su di una sostituzione che si era rivelata subito inadeguata. Marco però dimenticò in quella presentazione di ricordare uno scoop che gli avevo passato la notizia di un’operazione immobiliare che poi si rivelò nefasta per la Cgil: l’acquisto di un antico palazzo in località Piscello sul Lago Trasimeno (un bene di proprietà pubblica) di cui si era innamorato lo stesso Trentin con l’intenzione di farne un centro internazionale di studi e formazione. In quel caso, in Marco, il giornalista prevalse sulla persona. Marco aveva un’adorazione laica per Bruno. Quando scriveva di quel grande leader aggiungeva sempre queste parole: “il comunista che ha studiato ad Harvard”. Poi si esibiva nella descrizione di un blazer che Trentin giurava di non avere mai indossato. A quei tempi io e Marco ci sentivamo tutti i giorni. Una volta gli raccontai che la segreteria aveva deciso di scrivere una lettera al Capo dello Stato (credo che fosse Cossiga). Marco lo scrisse prima che la lettera avesse visto la luce. Il Quirinale fece telefonare dicendo che il Presidente non aveva ricevuto nulla. Così in segreteria si misero subito al lavoro. Un’altra volta raccontò che io e due colleghi delle altre confederazioni eravamo stati mandati a fare lobbyng sulla Legge finanziaria. Ci recammo di buon’ ora alla Camera appena in tempo per constatare che la legge era stata approvata in via definitiva nella notte. Ripensando a quelle circostanze mi sono reso conto col passare degli anni che le notizie trafugate erano interessanti non in sé per sé, ma perché allora era il sindacato ad essere importante, a suscitare l’attenzione dell’opinione pubblica. Una talpa oggi non avrebbe nulla da raccontare neppure ad un giornale di parrocchiale. Allora per un giornalista seguire i sindacati era un incarico di prestigio. I tre della “cupola” e i loro colleghi si presentavano a tutte le riunioni aperte seguendo il Carro di Tespi confederale e di categoria in ogni dove. Altrimenti, se le riunioni erano riservate, stazionavano nei corridoi per carpire qualche battuta appena un dirigente importante usciva per andare alla toilette. Occuparsi del sindacato garantiva che gli articoli avrebbero avuto, prima della girata nelle pagine interne, almeno un titolo e venti righe in prima. Oggi chi ne scrive se la cava cucendo i dispacci di agenzia. Addirittura potrebbe lasciare in redazione un “coccodrillo intra vivos”, perché i Paganini di oggi ripetano sempre la stessa musica. Solo Massimo Mascini e i suoi collaboratori tengono il punto. Il Diario del Lavoro continua a dare importanza ad un tema che è stato surclassato nei media dalle vicende di corna. In tanti non si sono neppure accorti che nella nuova Commissione europea non è più prevista una delega organica al lavoro, nonostante che l’ultimo commissario che ha svolto questo compito fosse il candidato dei socialisti alla presidenza. I socialisti? In Italia sono i primi a rinnegare la loro azione di governo. È grazie al Diario che io ho potuto dopo anni in cui c’eravamo persi di vista ritessere i rapporti con Marco Cianca attraverso la rubrica che mi inviava puntualmente o che andavo a cercare sul sito. Prima di lui, appena entrato nel sindacato, avevo conosciuto suo padre, Claudio, esponente della resistenza romana, grande capo degli edili romani (la Fiat della capitale), poi segretario generale della Fillea-Cgil Se ben ricordo per la sua popolarità era stato eletto alla Camera nelle liste del Pci.
Caro Marco, noi siamo vissuti (come il principe di Salina, nel capolavoro di Tomasi di Lampedusa) ai tempi dei leoni e dei gattopardi e e siamo andati a caccia insieme a loro. Abbiamo passato, però, i nostri ultimi anni in mezzo agli sciacalli, alle iene e alle pecore. E’ questo il principale motivo di conforto quando un amico trova la via d’uscita nella strada della vita quando ogni passo è dolore e fatica. Ignoro quale fosse il rapporto di Marco con l’aldilà. Personalmente, credo che la morte sia solo un episodio dell’esistenza, neppure il più importante. Consegno al mio amico di altri tempi, le parole che Platone attribuisce a Socrate nell’Apologia: “Morire è una di queste due cose: o chi è morto non è e non ha percezione di nulla, oppure morire, come si dice, può essere per l’anima una specie di trasformazione e di trasmigrazione da qui a un altro luogo. E se è assenza di percezione come un sonno, quando dormendo non si vede niente, neanche un sogno, allora la morte sarebbe un meraviglioso guadagno – perché io penso che se qualcuno, dopo aver scelto quella notte in cui dormì così profondamente da non vedere neppure un sogno, e paragonato a questa le altre notti e giorni della sua vita, dovesse dire, tutto considerato, quanti giorni e quante notti abbia vissuto meglio e più dolcemente di quella notte, penso che non solo un qualsiasi privato, ma lo stesso Gran Re troverebbe, rispetto agli altri, questi giorni e queste notti facili da contare – se dunque è questa la morte, io dico che è un guadagno; anche perché così il tempo tutto intero non sembra più di una notte sola. Se d’altra parte la morte è un emigrare da qui a un altro luogo, ed è vero quel che si dice, che dunque tutti i morti sono là, o giudici, che bene ci può essere più grande di questo? Perché se qualcuno, arrivato all’Ade, liberatosi dai sedicenti giudici di qui, troverà quelli che sono giudici veramente, che appunto si dice giudichino là, Minosse, Radamanto, Eaco, Trittolemo e tutti gli altri semidei che furono giusti nella loro vita, potrà forse essere, questa, una migrazione da nulla? O ancora per stare con Orfeo e con Museo, con Esiodo e con Omero, quanto ciascuno di voi accetterebbe di pagare?”.
Caro Marco, io sono sicuro che nei Campi Elisi dei giusti ci sia un giardino riservato ai sindacalisti e ai giornalisti che ne hanno raccontato le gesta; là passano, insieme, le loro giornate nel ricordo del passato. Non ha importanza se hanno avuto il dono della fede. All’Onnipotente interessano solo le opere.
Giuliano Cazzola