Forse era inevitabile. Ci si poteva anzi attendere che i racconti dei cronisti e i commenti degli analisti, dedicati alla manifestazione sindacale di sabato 16 ottobre, tenutasi a Roma a piazza San Giovanni, si sarebbero concentrati sui discorsi dei Segretari generali di Cgil, Cisl e Uil, nonché sugli slogan che campeggiavano sugli striscioni e sui cartelli esibiti dai manifestanti. Ovverosia sui messaggi volutamente ed esplicitamente inviati, innanzitutto al mondo politico, sia dagli oratori che dai partecipanti alla grande manifestazione.
Chi però ha avuto, come me, che abito non lontano da San Giovanni, il privilegio di raggiungere con poca fatica la zona del raduno, e di passeggiare fra la piazza e i suoi dintorni, ha avuto modo di notare anche altre cose, oltre alle parole dette e scritte. Altre cose che costituiscono se non il messaggio vero dell’iniziativa sindacale, almeno buona parte di tale messaggio. Ma si sa: nella cronaca di un fatto, come nel commento a tale fatto steso nell’immediatezza del suo accadere, non si può mettere tutto.
Vediamo adesso, però, se è possibile integrare articoli e corrispondenze già usciti fra domenica e lunedì con qualche nota aggiuntiva.
Prima osservazione. Cgil, Cisl e Uil, ovvero le tre maggiori confederazioni sindacali attive nel nostro Paese, hanno ancora delle notevoli capacità organizzative. Nessuno saprà forse mai esattamente quanta gente c’era alla manifestazione di sabato scorso. E questo anche perché, come accade nelle grandi manifestazioni, nella zona circostante piazza di Porta San Giovanni era tutto un andare e venire. C’era chi usciva verso piazzale Appio, alla ricerca di un trancio di pizza e di una bibita (l’appuntamento per l’inizio del comizio era alle ore 14:00), e chi ancora stava arrivando da via Merulana o da via Emanuele Filiberto. Comunque, si è trattato di tanta gente. Duecentomila, hanno detto gli organizzatori. E certo, tra la Scala Santa e il palco del comizio, la folla era così fitta che spostarsi al suo interno era molto difficoltoso.
Ora il punto è questo: per portare tanta gente nello stesso posto, alla stessa ora, è necessario un grande sforzo organizzativo. Bisogna prenotare treni, affittare autobus interurbani. Scrivere e inviare e.mail, convocare riunioni organizzative, fare tante telefonate, mettere in moto decine e centinaia di delegati. Raggiungendo centinaia e forse migliaia di luoghi di lavoro.
E tutto questo in poco tempo. Perché tra lo sciagurato assalto alla sede nazionale della Cgil, avvenuto nel pomeriggio di sabato 9 ottobre, e la manifestazione del 16 ottobre, è passata solo una settimana scarsa. Cioè fra i 5 e i 6 giorni lavorativi. Il minimo indispensabile, in termini temporali. E tuttavia un minimo che ha consentito di raggiungere un risultato più che notevole.
Seconda osservazione. Le considerazioni sin qui svolte non ci consentono solo di apprezzare le capacità organizzative di cui le tre Confederazioni ancora dispongono, ma tolgono anche ogni spazio a certi ragionamenti, che sono stati azzardati da esponenti politici del centro-destra, circa la discutibile coincidenza fra la data scelta per la manifestazione e la vigilia del turno di ballottaggio delle elezioni comunali, fissato per il 17 ottobre. Prima di sabato 16 ottobre, sarebbe stato materialmente impossibile organizzare una manifestazione nazionale. Anche perché si dà il caso che lavoratrici e lavoratori si chiamino così perché, per l’appunto, lavorano. E ciò accade con particolare frequenza nei giorni che vanno dal lunedì al venerdì. Mentre fare una manifestazione nazionale di domenica, in questo caso, avrebbe voluto dire farla nel giorno stesso delle votazioni, ovvero in un momento, a dir poco, inopportuno. Quindi, c’era poco da scegliere.
Terza osservazione. Dopo cinquant’anni e più di pratica unitaria – nata negli anni 60, cresciuta negli anni 70, entrata in crisi negli anni 80 del secolo scorso, e poi ricostruitasi, anche se con alterne fortune, fino ai giorni nostri – Cgil, Cisl e Uil non condividono solo una cultura organizzativa, ma anche i riflessi con cui reagire a certi accadimenti. Dal palco di San Giovanni, Maurizio Landini, segretario generale della Cgil, ha detto che, dopo l’assalto subìto dalla sede nazionale del suo sindacato, non ci ha messo più di cinque minuti a mettersi d’accordo con i suoi colleghi Pierpaolo Bombardieri (Uil) e Luigi Sbarra (Cisl) sulla necessità di organizzare al più presto un’iniziativa unitaria di carattere nazionale. C’è da credergli. E sarà i l caso di tenerne conto.
Quarta osservazione. Dunque Landini, Sbarra e Bonbardieri si sono messi d’accordo in quattro e quattr’otto. Bene. Dopodiché la palla è passata ai responsabili organizzativi che si sono messi rapidissimamente al lavoro con tutte le loro energie. Benissimo. Sorge tuttavia una domanda, che è poi il cuore di questo nostro abbozzo di riflessione. E la domanda è questa: ma chi glielo ha fatto fare a migliaia e migliaia di singoli individui, ancorché lavoratrici o lavoratori, nonché iscritti a un qualche sindacato confederale, di dire “Sì, vengo anch’io a Roma”? Perché dare questa risposta al sindacalista, al delegato, al collega che aveva fatto la rituale domanda, significava impegnarsi a fare un’alzataccia proprio in quel mattino di sabato in cui si può magari restare a letto un po’ di più, preoccuparsi di dove e con chi piazzare gli eventuali bambini, rinviare la spesa settimanale alla domenica o al lunedì, che è sempre una cosa complicata, e predisporsi a farsi quelle quattro, sei, otto, dieci e più ore di pulman o di treno, andata e ritorno, che proprio di sabato non sono il massimo della vita. E tutto questo gratis, ed eventualmente al costo di qualche screzio in famiglia.
Quinta osservazione. Più che i discorsi dei leaders, più che gli slogan scritti, gridati o cantilenati dai manifestanti, il vero messaggio della piazza del 16 ottobre è venuto dalla facce, dai berretti, dalle magliette e dalle felpe dei partecipanti. Facce vere. Visi giovani, di mezza età o già anziani, di uomini e donne, studenti, lavoratori o pensionati. Ma sempre facce vere, di gente vera, venuta per dire: qui ci sono anch’io. E poi quelle scritte sui vari capi d’abbigliamento d’organizzazione esibite con noncurante e orgogliosa naturalezza. Scritte da cui si veniva informati sulla categoria e sulla confederazione d’appartenenza, nonché sul luogo di provenienza della singola lavoratrice o del singolo lavoratore. E quindi ecco le felpe o le magliette rosse delle varie categorie Cgil, i berretti blu di lavoratrici e lavoratori iscritti alla Uil, e il verde che contraddistingue gli appartenenti alla Cisl. Come per ribadire che qui ci sono anch’io, una o uno che lavora in quel settore, è iscritto alla tal confederazione e viene dal tal posto. Una o uno che fa parte di un noi nel cui ambito è partita una mobilitazione che mi ha spinta o spinto a venire qui, oggi.
Sesta osservazione. Qui, oggi, abbiamo detto. E va bene. Ma a fare cosa? Solidarietà con la Cgil vittima di un’inattesa e inusitata aggressione, certo. Ma anche solidarietà con me, con noi. Perché non possiamo permettere che dei selvaggi, o comunque gente che si comporta come dei selvaggi, assaltino una sede sindacale, cioè una nostra sede, e la devastino spaccando mobili e distruggendo arredi e strumenti di lavoro. Non lo possiamo permettere, cioè non lo vogliamo permettere. Perché invece noi vogliamo contare. Vogliamo contare almeno qualcosa, in questo Paese.
Settima osservazione. Ecco, vogliamo contare. Ed è qui il punto d’aggancio fra le parole pronunciate dal palco dai tre Segretari generali di Cgil, Cisl e Uil e le motivazioni che hanno portato in piazza di Porta San Giovanni quelle decine di migliaia di militanti sindacali. Perché, essendo gente del mestiere, sia Landini che Sbarra e Bombardieri sanno almeno due o tre cose. Prima cosa, che il Lavoro organizzato, per definizione, vuole contare. Seconda cosa, che se un diffuso quanto generico malcontento che si aggira alla base della società è potuto crescere e gonfiarsi fino a esplodere di fronte all’occasione offerta dal presentarsi di un doppio bersaglio contro cui dirigersi a testa bassa, occasione composta dall’alternativa, vissuta come imposizione insopportabile, fra vaccino e green pass, ciò deriva anche dal fatto che alla base di quel malcontento c’è la sensazione che le decisioni che contano vengano prese in un indefinito altrove da un indefinito qualcun altro. Terza cosa: che se i sinceri democratici vogliono svuotare il mare ribollente di frustrazioni e rancori da cui si è levata l’onda che si è abbattuta contro il portone della sede Cgil di corso d’Italia, bisogna riaprire qualche canale di comunicazione fra società e Stato.
Ottava osservazione. Dopo la Seconda Guerra mondiale, e dopo vent’anni di dittatura fascista, l’Italia era non solo un paese distrutto, ma anche un Paese in cui un paio di generazioni di cittadini non avevano mai avuto occasione di acquisire anche solo una vaga idea di che cosa volesse o potesse dire, in concreto, il concetto di partecipazione democratica. E’ indubbio che in quel paesaggio di rovine, ma anche in un momento carico di speranze, la rinascente vita sindacale offrì a milioni di lavoratori l’occasione di partecipare a una specie di corso di massa di democrazia pratica. Corso che contribuì in modo decisivo a dare solide basi anche alla rinascente democrazia parlamentare. Oggi, in una fase che si avvia a essere quella del dopo Covid, fase in cui al posto del Piano Marshall arriva il Next Generation EU, i dirigenti sindacali avvertono, assieme, la possibilità e l’esigenza di far sì che un coinvolgimento del movimento sindacale unitario nella ricerca e nei processi decisionali relativi a come impiegare i fondi europei possa ridare, innanzitutto al mondo del lavoro, una nuova fiducia sul valore positivo della militanza sindacale intesa come via per far valere le proprie ragioni. E possa poi contribuire a creare nuovi canali di partecipazione di ampi strati della società alla vita democratica del Paese.
Per Bombardieri, Landini e Sbarra, non si tratta quindi solo di battersi a viso aperto contro quel moncone di organizzazione neofascista che risponde al nome di Forza Nuova, ma di aggredire quel mix di sfiducia e diffidenza che circola in ampi strati della società e ne avvelena i tessuti. Prova ne sia che lo stesso Landini si è chiesto pubblicamente perché proprio adesso sia accaduto che qualcuno abbia ritenuto possibile condurre una folla rabbiosa all’assalto di una sede sindacale. Cosa mai accaduta a partire dal secondo dopoguerra.
Nona osservazione. Cgil, Cisl e Uil, almeno fin qui, non hanno mostrato un volto ostile al Governo guidato da Mario Draghi. Anzi. E se si vuole capire perché non solo a Roma, ma anche a Milano e altrove, questo confuso e minaccioso movimento – che tiene insieme l’irrazionale opposizione al vaccino e al green pass con le pulsioni violente di un’estrema destra nostalgica dello squadrismo – se la sia presa con i sindacati confederali e con diverse sue articolazioni locali, la risposta è semplice. Hanno aggredito i sindacati perché questi ultimi non si sono schierati contro il Governo e i suoi provvedimenti ma, al massimo, ne hanno criticati alcuni. Al contrario, almeno fin qui, i sindacati confederali hanno cercato ripetutamente di stabilire un contatto con lo stesso Governo. Contatto che potesse loro consentire di aprire un discorso volto a creare le occasioni e le modalità di un vero e proprio confronto.
Decima osservazione. Debbo confessarlo: nel mio piccolo, neanch’io ho trovato del tutto convincenti vari passaggi dei discorsi programmatici svolti sabato dai leaders delle nostre tre maggiori confederazioni sindacali. In materia di Alitalia, ad esempio. O delle prospettive del sistema previdenziale. Però, a differenza di vari critici delle attuali piattaforme sindacali, penso, se mi permettete la citazione, qualcosa di simile a ciò che pensava, un secolo fa, il grande Eduard Bernstein, massimo esponente teorico del riformismo socialdemocratico tedesco: “L’obiettivo finale, per me, è niente; il movimento è tutto”.
Concludendo, Landini, Sbarra e Bombardieri non sono tre personaggi in cerca d’autore. Per il Governo sin qui saggiamente guidato da Mario Draghi, sono il miglior interlocutore attraverso cui parlare con milioni di cittadine e di cittadini. Quelle e quelli che lavorano, mandano avanti la baracca e sono l’anima della vita democratica del nostro Paese.
@Fernando_Liuzzi