Che mese terribile per Giorgia Meloni! Dovevano essere le settimane della consacrazione: come regista di una nuova Italia, da un lato, come kingmaker in Europa. E, invece, in Italia l’onda che cavalcava sembra aver perso fiato, la coalizione di governo appare un po’ logora, le riforme-simbolo sotto attacco. In Europa, è finita nella terra di nessuno: isolata, scavalcata, accerchiata. E a pagarne il prezzo potrebbe essere non solo la destra italiana, ma tutto il paese. In politica, le sorprese sono sempre possibili e la Meloni ha tutt’altro che finita la benzina. Ma se la sua traiettoria si accorciasse e un brusco atterraggio si facesse vicino, bisognerà dire che il punto di svolta c’è stato in questo accidentato inizio di estate.
Le nuvole non oscurano troppo, in realtà, l’Italia di Meloni. Le elezioni europee di inizio giugno indicano che la marcia trionfale della destra di governo si è arrestata, ma l’egemonia è stata confermata. A Palazzo Chigi avrebbero preferito, magari, che il voto non chiarisse le cose a sinistra, premiando il Pd di Schlein sui 5S di Conte e che il successivo successo della sinistra nelle grandi città non riaprisse il dossier del “campo largo”. Per il momento, comunque, in casa non è successo nulla. È in Europa che l’aspirante leader della destra europea si è trovata a soffrire.
Il voto per il Parlamento europeo ha premiato, in generale, le formazioni di destra, ma non c’è stato l’auspicato sfondamento. Le formazioni che, tradizionalmente, hanno governato la Ue – popolari e socialisti – hanno sostanzialmente retto. E, da quel 9 giugno in avanti, per Giorgia Meloni è tutta una corsa all’ingiù, mentre le carte che aveva in mano bruciavano via, una dopo l’altra.
Confortati dal voto, i popolari, soprattutto tedeschi, hanno deciso di respingere la corte della Meloni, confermando l’alleanza di sempre con socialisti (Scholz) e liberali (Macron). Mesi di blandizia verso Ursula von der Leyen sono svaniti in fumo nel giorno, forse, più terribile per la leader di Fdi, tenuta rigorosamente fuori e all’oscuro (e, con lei, anche il terzo paese per importanza della Ue, l’Italia) delle trattative per i nuovi vertici europei. Uno sgarbo voluto, la cui importanza è moltiplicata da quanto è avvenuto subito dopo: in rapida successione, nel giro di pochi giorni, la Meloni si è vista privare di qualsiasi punto di riferimento in Europa. Sunak, Le Pen, Orban, Abascal: svaniti, sconfitti o divorziati.
Rishi Sunak non era propriamente un leader europeo, visto che Londra si è chiamata fuori dalla Ue. Ma, in questa area del mondo, era il più presentabile dei supposti amici della premier italiana. Comunque, ormai, Sunak è storia e farsi vedere con lui, alla vigilia della peggiore sconfitta della storia per i suoi conservatori non è stata, probabilmente, una grande idea.
Più grave, per la presidente del Consiglia italiana, il flop di Marine Le Pen, domenica scorsa. Le due donne forti della destra continentale non si amano e percorrono strade diverse, come si è già visto. Ma una Le Pen insediata al governo a Parigi – simpatica o meno – avrebbe fornito alla Meloni una sponda essenziale, in chiave europea. Quanto sarebbe bastato per far rimangiare quella notte di Bruxelles a chi l’ha snobbata nelle trattative.
Le norme comunitarie prevedono, infatti, che una legge non può passare contro il veto di almeno quattro paesi che rappresentino, come minimo, il 35 per cento della popolazione Ue. L’Italia di Meloni, più l’Ungheria di Orban, più la Slovacchia di Fico e l’Olanda di Wilders, con l’aggiunta della Francia lepenista avrebbero fatto il 35,7 per cento della popolazione europea. Una minoranza di blocco che avrebbe restituito alla Meloni quel ruolo centrale nei meccanismi dell’Unione che le era stato negato nella notte di Bruxelles. Possiamo immaginare come la presidente del Consiglio pregustasse questa opportunità. Ma il flop di Rn gliela nega. Che governo ci sarà a Parigi non si sa, ma certamente non sarà un governo lepenista.
Eppure, lo smacco peggiore doveva ancora arrivare. L’ultimo – e decisivo – siluro è arrivato dagli amici su cui contava. Non tanto i vicini ideologici, ma rivali politici, come Le Pen o Salvini, ma i sodali con cui ha intessuto per anni rapporti sempre più intensi, esponendosi personalmente, a Budapest come sulle tribune dei congressi di Vox. E, invece, Orban, come Pedro Abascal si sono messi, insieme a Le Pen e a Salvini in un nuovo raggruppamento – Patrioti – del Parlamento europeo, scavalcando la Meloni. Adesso, Patrioti è il terzo gruppo a Strasburgo per numero di parlamentari, relegando al quarto posto i Conservatori guidati dalla premier italiana. Per Giorgia Meloni rischia di essere la definitiva emarginazione. La prossima settimana, quando il Parlamento dovrà dire sì o no ad un nuovo mandato per Ursula von der Leyen, la Meloni potrebbe votare No, accodandosi a Orban e a Salvini. O potrebbe astenersi o votare Sì. Ma, nella nuova situazione, anche un Sì farebbe del capo di FdI non l’alleato cruciale, ma l’imbucata dell’ultima ora alla festa.
A occhio – e per il momento – alla Meloni non poteva andare peggio. Ma c’è una ultima insidia in agguato. Nel clima di irrilevanza che rischia di circondare il governo di Roma nei prossimi mesi, un paese in bilico come l’Italia non può dormire sonni tranquilli. Se a Parigi dovesse prevalere l’instabilità politica e questa si riflettesse sui mercati, il contagio per l’Italia sarebbe scontato. Se lo spread francese schizza, quello italiano anche di più. E non c’è proprio da contare in una complice tolleranza a Bruxelles.
Maurizio Ricci