Qualche giorno fa, passando davanti a uno dei numerosi palazzi romani che rappresentano le istituzioni, un’immagine ha inevitabilmente strappato un sorriso amaro. Come in tutti gli edifici della categoria, erano esposte sulla facciata sia la bandiera della Repubblica italiana sia quella dell’Unione Europea. Di per sé niente di strano, solo che in realtà avvicinandosi saltava all’occhio la netta differenza tra le due: il tricolore era splendida forma, mentre la bandiera europea era talmente lisa da essersi strappata. In pratica si teneva su solo perché rompendosi era rimasta incastrata.
Nel frattempo, però, sempre negli stessi giorni e sempre a Roma, abbiamo tutti assistito anche a un’altra immagine ben più forte, in cui quella stessa bandiera europea, in questo caso in coppia con quella della pace, ha tinto di blu e giallo una gremita Piazza del Popolo. Meno male, nessun complotto dei bandierai quindi.
In un momento storico in cui l’Unione Europea sembra essersi smarrita – o se invece lei sa perfettamente dove si trova, è comunque questa la percezione che ne hanno i suoi cittadini – l’altro elemento che ha caratterizzato quella piazza che fin dal primo momento ci ha tenuto a definirsi apolitica, è stato il costante tentativo di richiamare quelle radici e quei valori su cui, dal secondo dopoguerra, poggia le sue basi il processo di integrazione europea: il Manifesto di Ventotene. Freschi dell’entusiasmo della manifestazione di sabato scorso, questo stesso documento, redatto nel 1941 da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi e Eugenio Colorni durante il periodo di confino sull’isola di Ventotene, è stato poi oggetto di una nuova polemica in questa stessa settimana, dopo che Giorgia Meloni ne ha citato alcuni estratti durante la seduta del Senato di mercoledì 19 marzo.
Rischiando di semplificare un po’ la complessità degli eventi, tuttavia, si potrebbe quasi dire che a stupire davvero è stato proprio lo stupore suscitato dall’intervento della Premier. Intanto perché la storia politica del partito di cui è a capo è perfettamente coerente con un atteggiamento che negli anni ha finalmente trovato la sua definizione nel termine “euroscetticismo”. Infatti, sebbene al Movimento Sociale Italiano e alle destre estreme degli altri paesi fondatori – tra cui il partito di Jean-Marie Le Pen, non fu applicata quella conventio ad excludendum che toccò invece ai comunisti, questo non fu comunque sufficiente a smuoverli da quell’atteggiamento di difesa del nazionalismo e di tutela degli interessi nazionali, che nella loro visione erano inevitabilmente minacciati dall’ipotesi di un’integrazione sovranazionale. Anche gli stessi comunisti, peraltro, non ne erano particolarmente entusiasti perché la riconducevano, a torto o a ragione, a un meccanismo di alleanza sovranazionale da leggersi in chiave anti-sovietica.
A dirla tutta, in Italia un Comitato parlamentare per l’Unione europea nacque nel periodo post-bellico, in seno all’Assemblea Costituente nel 1947 e a promuoverlo fu il democristiano Enzo Giacchero. Perché è proprio a guerra ultimata che si riconduce in termini storici il vero inizio della storia dell’integrazione europea, rendendosi facilmente conto che quegli anni che intercorrono tra il 1941 e il biennio 1946-1947 furono così ricchi di avvenimenti e ripercussioni sociali, sia nei confini nazionali dei singoli, sia in un’ottica ancor più delicata dei diversi equilibri sovranazionali, da richiedere tavoli di lavoro e anni di studio delle possibili soluzioni adeguate a quelle che erano diventate le nuove sfide istituzionali ma anche economiche e sociali.
In questa ottica, quello di Giorgia Meloni è stato diffusamente definito un intervento “di distrazione di massa”, nel quale si è fatto ricorso peraltro a uno strumento piuttosto condiviso in questi tempi, quello di estrapolare virgolettati quasi a cercare di renderli esempi delle più alte figure retoriche che rappresentano una parte per il tutto. Non c’è dubbio che il Manifesto di Ventotene e lo spirito con cui è stato redatto debbano essere contestualizzati nel momento storico – e anche fisico – in cui questo avveniva. Basti pensare che il titolo originario di quel documento era “Per un’Europa libera e unita” e che nel 1941 l’Europa e molti dei suoi abitanti avevano dimenticato cosa significasse essere liberi e uniti. A vederla così, il titolo stesso rappresenta un auspicio sufficiente a renderlo un testo rivoluzionario, come – è evidente – lo sono stati i suoi stessi autori per ritrovarsi nelle circostanze di doverlo scrivere al confino.
Torno su un’ulteriore riflessione doverosa: alla luce di quanto fosse cambiato il terreno su cui poggiare le prime pietre in quei pochi, pochissimi, anni intercorsi tra la redazione del testo e l’effettiva possibilità di agire, l’Europa auspicata da quel documento difficilmente poteva trovare attuazione nella realtà e ancora oggi ci portiamo avanti, anzi ci trasciniamo proprio, un grande dibattito su quale sia la forma migliore da dare a questa Europa: un dibattito che si divide tra la visione federalista, di cui Spinelli ha continuato fino all’ultimo a essere un grande sostenitore, e quella unionista. Indubbiamente, tutto questo ha ricordato che ancora oggi, dopo ottant’anni, non si è saputo trovare una risposta convincente e forse può essere proprio da qui che si rende necessario ritrovare lo slancio per sedersi al tavolo e riaprire un’adeguata riflessione istituzionale.
Il delicato tema del riarmo europeo, per esempio, non può non far pensare alla fretta che, subito dopo l’istituzione della Comunità Europea per il Carbone e per l’Acciaio, ha portato al tentativo di creare una Comunità Europea di Difesa e il cui fallimento, derivato dalla mancata ratifica del trattato da parte della Francia, ha influito pesantemente sui successivi sviluppi dell’integrazione europea.
Entrando in una delle librerie di una nota catena di distribuzione, nel reparto storia e saggistica, i libri sono a loro volta divisi in sottocategorie, dalle più ampie e generiche come storia d’Italia, storia antica, moderna e contemporanea, per passare ad altre assai più minuziose: templari, crociate, streghe, matriarcato, rivoluzione francese e russa – ovviamente, Shoah, fascismo/nazismo, resistenza, lotta armata, massoneria. Quand’è che l’Unione Europea si sentirà finalmente abbastanza rilevante da meritare un suo proprio pezzetto di scaffale dedicato al racconto di che incredibile lavoro è stato ed è ancora oggi creare quella – per citare le parole di Roberto Benigni – è stata “la più grande costruzione istituzionale, politica e sociale degli ultimi 5.000 anni”?
Marianna Fazzolari