Dario Di Vico ha posto sul Corriere della sera la questione del malessere del sindacato. Che non se la passa molto bene, più acciaccato dagli anni che dalle responsabilità che gli gravano addosso, specie in questo particolare momento di tensioni economiche e sociali. Un malessere di cui l’uscita di scena di Marco Bentivogli rappresenta un sintomo preciso. Ma il sindacato sta davvero male? E, nel caso, di quali malattia soffre? Interrogarsi in tal modo ha un senso preciso, perché il paese deve sapere su chi può contare, specie nelle emergenze.
La prima cosa da guardare per verificare lo stato di salute del sindacato è il numero delle tessere. In questa prospettiva le tre confederazioni non stanno male, il tesseramento va bene, stanno tornando da qualche tempo anche gli attivi, oltre ai soliti numerosissimi pensionati. È sempre così, del resto, perché del sindacato si ha bisogno, e quindi ci si iscrive, quando le cose vanno male e a casa nostra l’economia, quindi anche l’occupazione, almeno da dodici anni tanto bene non stanno. È proprio la voglia di sindacato a non essere venuta meno: i riders, per esempio, categoria tra le più lontane dalle confederazioni, con le quali non riescono ad avere un dialogo, perfino loro un sindacatino di mestiere se lo sono fatto. Sempre per il bisogno di certezze e sicurezze.
Un po’ meno bene stanno le finanze del sindacato, perché patronati e Caf, per tanti anni i bancomat delle confederazioni, hanno subito gravi colpi dai loro detrattori. Ma nel complesso la macchina funziona, un po’ smagrita ma capace di rispondere alla chiamata. Nel senso che se nasce un problema il sindacato non si tira da parte. Quello che difetta è invece la capacità di guardare lontano, di elaborare proposte, di avanzare schemi strategici in grado di far recuperare il terreno perso. Per lo più il sindacato sembra attento a difendere e assistere, mantenere lo status quo, quindi più rassegnato che armato per combattere. Del resto, a dirlo, anche se con altre parole, è in un’intervista a Il diario del lavoro il presidente del Cnel, Tiziano Treu, che il sindacato lo conosce e ha gli strumenti per guardarlo a fondo.
Perché questa difficoltà? Da dove nasce e come è possibile farvi fronte? Il punto di fondo sembra essere l’inversione che si è verificata nel processo decisorio del mondo del lavoro. Negli anni in cui il sindacato era forte, le idee partivano dalla base dei lavoratori. Erano loro che elaboravano le piattaforme rivendicative, che lanciavano le idee con la contrattazione di secondo livello. Idee e concetti che venivano poi elaborati, portati a massima, traslati nella contrattazione nazionale e poi anche nelle leggi dello Stato. Lo statuto dei lavoratori non si inventò nulla. Gino Giugni nel 1970 si limitò a mettere ordine e a dare un senso a realtà già esistenti e che furono estese a tutti.
Quella catena si è interrotta, il sistema non risponde più. Le decisioni, piccole e grandi, vengono prese dai vertici. E questi si restringono sempre di più, e così perdono di identità. Io racconto sempre che negli anni settanta conoscevo il nome di tutti i segretari nazionali della Uilm, che pure era il sindacato più piccolo della pur mitica classe metalmeccanica. Conoscevo i loro nomi e sapevo a quale partito politico si rifacevano e quali erano le loro idee, tanto è vero che quando in un convegno o in una riunione sindacale uno di loro esponeva un’idea differente questo saltava agli occhi, era la notizia.
Adesso non conosco più nemmeno il nome di tutti i segretari confederali della Uil, e nemmeno di quelli della Cgil. Perché hanno perso identità, e le persone di spicco sono sempre meno, il gruppo si è assottigliato. Quelli bravi ci sono, ma sono isolati, e si trovano più nelle categorie e nei territori che ai vertici delle confederazioni. Il punto è che quando il dibattito al vertice si assottiglia il processo di irrigidimento si accelera. Regna il sistema della cooptazione, dannoso, perché tende a portare avanti persone omologhe a quelle che già ci sono, gli eterodossi vengono messi da parte. Anche se sono loro a poter fornire vitalità, nuova linfa alla pianta.
La disintermediazione ha favorito questo scivolamento. Se l’è inventata la politica per cercare di rimediare al proprio stato di debolezza, molto più accentuato che nel sindacato, ma è stato pernicioso per tutti. Per la politica, che ha perso i possibili alleati e ha visto accelerare i propri problemi, ma anche per le parti sociali. Sicuramente per l’associazionismo datoriale, attualmente in gravi condizioni, come dimostrato dal proliferare dei contratti nazionali, che si moltiplicano perché non ci si riconosce più nella politica e nell’azione delle grandi confederazioni padronali.
Paradossalmente è il sindacato che sta meglio, o meno peggio. Perché può contare sulla forza della grande rete dei suoi delegati, centinaia di migliaia di persone presenti in tutti i posti di lavoro, anche quelli più piccoli, e che restano a contatto con i lavoratori. Un esercito che ha retto negli anni. Il processo decisorio si è invertito, ma loro continuano ad essere lì, a portare al vertice gli umori, le difficoltà e le speranze della base dei lavoratori. Da loro partono idee e sollecitazioni e, se il vertice del sindacato li ascoltasse appena un po’ di più, forse attenuerebbe i suoi problemi esistenziali. Non è facile, ma ci si può riuscire a risalire la corrente. Con un’alleanza, un nuovo dialogo tra politica e parti sociali, fino a un grande patto triangolare. Come è già avvenuto in altri momenti. Ci si può provare.
Massimo Mascini