Non ha avuto una grande eco sulla stampa la notizia del cambiamento della carica del commissario Ue che segue i problemi del lavoro. Dal 1970 questo commissario era competente per “Occupazione e affari sociali”, poi passò a “Lavoro e diritti sociali”, adesso viene indicato come “Persone, competenze, preparazione”. La Ces, il sindacato dei lavoratori europeo, ha protestato per questa variazione sottolineando che in questo modo la parola Lavoro usciva di scena, come anche quella “Diritti sociali”. Secondo la confederazione sindacale questa è la conseguenza diretta di una pericolosa sottovalutazione del problema del lavoro, che troverà poi rispondenza anche nella politica della nuova Commissione, evidentemente poco attenta ai problemi dei lavoratori. In realtà, la lettera di missione diffusa dalla Von del Leyen parla diffusamente di diritti sociali e di dialogo sociale, ma evidentemente questo non è stato sufficiente ai vertici della Ces.
E’ difficile che ci siano dirette conseguenze di questa divergenza di opinioni, perché la Ces è abituata a procedere con passi felpati, e poi perché prima di muoversi comunque aspetterebbe delle decisioni un po’ più concrete in senso anti labour da parte della Commissione. Ma la presa di posizione colpisce perché sottolinea una notevole distanza tra la visione del mondo del lavoro che evidentemente anima il sindacato europeo e la realtà come viene vissuta tutti i giorni nel mondo della produzione, quindi anche del lavoro.
Nessuno mette in discussione le difficoltà che stiamo vivendo in termini di ridotta corsa dei salari, di precarietà, di crescita abnorme dei part time involontari, e potremmo andare avanti a lungo descrivendo queste dolorose piaghe del mondo del lavoro. Ma la vera emergenza, in questo momento, è tutta sulle competenze, sempre insufficienti al punto da mettere in pericolo la tenuta della realtà industriale, anche nel mostro paese. Le aziende cercano persone che sappiano fare alcuni mestieri, e non le trovano, in percentuali incredibili solo qualche anno fa. Il mismatch tra domanda e offerta di lavoro è altissimo, supera in alcune circostanze il 50%, il che significa che se a un’azienda servono cento persone per assicurare una determinata produzione, è fortunata se ne trova cinquanta. Quindi può solo ridurre le sue commesse o abbandonarle. Commesse che però sono posti di lavori. E peggio sarà con l’andar del tempo perché non solo non si trovano lavoratori specializzati, e a volte neanche quelli generici, ma l’offerta di lavoro, il numero delle persone disposte a lavorare, cala di continuo per il combinato disposto della denatalità e della crescita continua dell’età media. Problemi europei, ma in particolare del nostro paese, dove si vive più a lungo rispetto al resto d’Europa e nascono meno bambini. Le prospettive del mercato del lavoro a venti e a trent’anni parlano di milioni di persone in età di lavoro in meno, quindi di maggiore povertà complessiva. I numeri che elenca Maurizio Ricci nella sua rubrica su Il diario del lavoro fanno paura. Tanto più se a tutto ciò si aggiunge la fobia di alcuni ambienti politici, a casa nostra maggioritari, nei confronti dell’aiuto che possono portare i flussi migratori.
Un imprenditore veneto qualche tempo fa si sfogò su Il diario del lavoro ricordando tutti i quasi inutili tentativi che la sua azienda aveva esperito nella ricerca di lavoratori. Dopo aver dragato tutti i possibili siti la ricerca si era diretta agli istituti formativi, per convincere i ragazzi a prendere in considerazione l’assunzione nella sua azienda, ma il risultato era stato risibile. I ragazzi non rispondevano nemmeno ai suoi questionari, forse non li leggevano nemmeno.
In questa situazione di difficoltà crescenti le relazioni industriali possono intervenire, anche se la strada di possibili azioni è tutta in salita, anche a causa di modifiche rilevanti intervenute nel mondo del lavoro, di cui non è possibile non tener conto. Ma qualcosa è possibile fare, sempre partendo dal dato di fatto che i possibili bacini cui attingere sono le donne e i giovani Neet, quelli che non lavorano e non studiano, non fanno nulla. Per convincere a lavorare le donne, anzi le mamme, perché sono le donne con figli ad avere le vere difficoltà, servono fatti concreti, il primo dei quali è un salario vantaggioso. È evidente che se la retribuzione offerta è inferiore o di poco superiore a quella che prenderebbe la persona che si prenderebbe cura dei figli non c’è alcuna possibilità di portare queste donne al lavoro. Varrebbe un servizio di asili nido efficiente, ma questo esce dalla competenza delle relazioni industriali, se non per le strutture aziendali dove parcheggiare i figli, che ci sono, ma mai in maniera sufficiente.
Ancora più complesso un intervento per convincere i giovani. Servirebbero salari quanto meno dignitosi, e non è facile averli. Servire una maggiore attenzione al bilanciamento vita e lavoro e su questo le relazioni industriali si stanno adoperando. Migliori condizioni di lavoro, orari più elastici, ricorso massiccio allo smart working, sono tutti canali che possono e debbono essere esperiti, anche perché non si vedono molte altre strade percorribili. E poi servirebbe un irrobustimento del sistema formativo, che al momento appare insufficiente. Forse va riformato, ma una cosa è sicura, l’azione dei fondi interprofessionali, per quanto meritoria, non può più bastare. Se non si riesce a fare tutte queste cose, e sembra difficile riuscirvi, siamo destinati al declino.
Massimo Mascini