“Per la prima volta non sono andato a votare. Ma quello che mi sgomenta di più è che non mi importa niente, nemmeno dei risultati”. A parlare così è un convinto cultore della democrazia, talmente attaccato ai suoi valori fondanti che la notte prima del referendum voluto da Matteo Renzi dormì con il testo della Costituzione sotto il cuscino paventando insani stravolgimenti. Adesso constata con tristezza, quasi sorpreso, di essere anch’egli caduto nel gran calderone dell’astensionismo. Il limbo della politica.
“Or discendiamo qua giù nel cieco mondo”. Non c’è impeto, non c’è calore, solo sospiri “ne l’aura che trema”. Ecco, tutto si può dire delle elezioni nel Lazio e in Lombardia, sulle quali gli analisti già si stanno sbizzarrendo, tranne che ci sia passione, intesa non come sofferenza (questa, almeno a sinistra, abbonda), ma nel significato di tensione emotiva. Tali non possono certo essere definiti il livore e il senso di rivalsa che trasudano a destra.
“Effetto Fedez &C: sinistra asfaltata”, titola “Il Giornale”. “Canta la destra”, fa eco “Libero”, precisando nel sommario “La sinistra s’aggrappa a Fedez, Egonu e Zan e finisce asfaltata. Doppia sberla”. “La sinistra vince solo a Sanremo”, gongola “La Verità”. “C’è solo il centrodestra”, esulta “Il Tempo”, aggiungendo: “A pochi giorni dalle primarie altra batosta per i Democratici”. “Se la sono presa in quel posto”, chiosa in strada una verace sorella d’Italia.
Tutto si mischia in una smodata sarabanda. Le polemiche sul festival, i diritti delle minoranze, le differenze di genere, il razzismo, l’immigrazione. Il trionfo di Attilio Fontana e di Francesco Rocca viene usato come una clava per manganellare le idee di chi si ostina ad avere visioni un pochino più complesse. Ma se questo era prevedibile, se c’è così tanto in gioco, perché dall’altra parte della barricata non si è combattuto casa per casa?
“Sono deperite le grandi organizzazioni, la chiesa e il partito cattolico da un lato, i sindacati e i partiti di sinistra dall’altro; che facevano educazione politica, smuovendo dall’apatia chi non aveva risorse cognitive, e li inseriva in un contesto collettivo di partecipazione e condivisione di obiettivi. La rete non riesce—per ora- ad arrestare questa deriva”, ha scritto Piero Ignazi. Un’analisi corretta, che però è applicabile per lo più alle periferie e ai ceti meno colti. Siamo di fronte a qualcosa di diverso, perché anche la cosiddetta intellighenzia sembra essere preda dell’apatia e della rassegnazione (almeno nel migliore dei casi, perché molti sono già saliti, fin dal 25 settembre, sul carro dei vincitori).
L’astensionismo rappresenta un nuovo Aventino delle coscienze. Sappiamo come andò a finire. Certo, le divisioni, la presunzione, il narcisismo, l’ingenuità, il masochismo, l’inutilità di chi dovrebbe guidare l’opposizione producono un effetto repulsivo. Marco Bentivogli accusa “l’arroganza delle nomenclature”. Ma neanche ciò basta a spiegare l’ampiezza della resa. Oltretutto, le Regioni, con la prospettiva dell’autonomia differenziata e delle enormi competenze che dovrebbero avere, sono un fondamentale campo di battaglia.
La malattia è più profonda, ha origini lontane e adesso si sta palesando in tutta la sua virulenza. Da troppo tempo non c’è rispondenza tra offerta politica e aspettativa ideale. E la sirena del male minore non incanta più. Si vorrebbe votare qualcuna, qualcuno, un partito, un’alleanza, un progetto nel quale si crede davvero e non andare alle urne solo per evitare che vincano gli altri, quelli cattivi davvero. Ecco “la grande depressione”, come diagnostica Michele Serra.
Dice Virgilio a Dante: “Senza speme vivemo in desio”.
Marco Cianca