Vista l’attualità del tema nel dibattito politico, economico e sociale, pubblichiamo in anticipo il contenuto del professor Adriano Fabris che potrete trovare nell’edizione 2021 dell’Annuario del lavoro.
Stupisce un po’, di questi tempi in cui la polemica fra pro-vax e no-vax si estende anche alle relazioni industriali, il fatto che non venga adeguatamente evidenziata la notizia che proprio la necessità di produrre una maggiore quantità di vaccini sta comportando un sensibile aumento dell’occupazione nel comparto farmaceutico. Ciò riguarda anche l’Italia. A fine luglio del 2021 è stata diffusa la notizia della trattativa fra Moderna e il governo italiano per produrre ad Anagni i vaccini anti-Covid di ultima generazione. E non si tratta di un caso isolato. Soprattutto, ciò non riguarda solamente il ciclo produttivo di aziende altamente specializzate e l’aumento della loro capacità occupazionale. A tali aziende infatti si aggiungono, tanto per fare alcuni esempi, anche quelle che fabbricano i macchinari ad alta tecnologia usati nelle varie fasi di produzione dei vaccini, quelle che producono le fiale che li contengono, nonché altro materiale medico, e le imprese addette allo stesso infialamento del prodotto finito, al suo stoccaggio e immagazzinamento.
Certo: si tratta di una magra consolazione per coloro che, proprio a causa del Covid-19, il lavoro lo hanno perso. Inoltre, quello richiesto dal comparto farmaceutico è un lavoro che richiede una formazione molto specifica, a cui non sempre l’università italiana è in grado di far fronte: ecco perché è difficile reperire nuovi addetti nel settore. Più in generale, poi, è chiaro che i dati sull’aumento degli occupati, qui, non compensano i danni all’occupazione che in altri settori, meno specializzati, la pandemia ha provocato. Si tratta però di un esempio importante in direzione di quel riposizionamento che nel mercato del lavoro bisogna compiere se si vuole ripartire e assecondare i segnali di ripresa che, fortunatamente, si stanno moltiplicando. Anzi: è un segno indicativo del fatto che il lavoro per i vaccini – chiamiamolo così – è in costante crescita: non solo all’estero, ripeto, ma anche in Italia.
Di questo e di altri aspetti analoghi, però, si tiene poco conto nel dibattito pubblico relativo ai vaccini. Esso infatti, soprattutto per come viene condotto attraverso i media, si concentra soprattutto sui fruitori, reali o possibili, di questo rimedio alla pandemia: l’unico rimedio efficace, per il momento, a disposizione. È all’interno di tale scenario che ha acquisito sempre più rilievo il dibattito tra chi è a favore e chi è contrario ai vaccini, o che comunque manifesta una diffidenza a riguardo. Ed è a partire da qui che emerge l’altra questione decisiva: quella relativa al modo in cui la vaccinazione, estesa a tutti i soggetti con essa compatibili, può consentire una ripresa in sicurezza delle varie attività lavorative.
Dal tema del lavoro per i vaccini si passa dunque alla questione dei vaccini per il lavoro, cioè ai vaccini considerati come condizione della ripresa. Si tratta anzitutto di una questione che, nel dibattito pubblico, viene sviluppata in maniera conforme a quella che nella mentalità comune è l’immagine che, soprattutto nei paesi occidentali, ciascuno ha di sé. Qui, infatti, il benessere psicofisico dell’essere umano, considerato nella sua individualità chiusa e autosufficiente, è ritenuto il principale valore da perseguire, la condizione fondamentale per una vita degna di essere vissuta, l’elemento da salvaguardare a ogni costo. Il raggiungimento e il mantenimento di tale benessere è considerato anzi un diritto a cui ciascuno può legittimamente aspirare. Di più: è inteso come qualcosa di cui bisogna pretendere l’ottenimento.
Si tratta di una pretesa che trova implicita legittimazione facendo riferimento a uno strano connubio. Sul dettato della Costituzione italiana, che pone il lavoro a fondamento della nostra Repubblica, s’innestano infatti alcune suggestioni tratte dalla Dichiarazione d’indipendenza americana, che attribuisce alla felicità individuale la qualifica di diritto costituzionalmente garantito. In ogni caso una cosa sembra chiara: se non siamo noi che possiamo garantirci il benessere a cui abbiamo diritto, ce lo deve garantire – in una funzione quasi di supplenza materna – la stessa società.
Si comprende dunque perché il tema della vaccinazione è affrontato, per lo più unilateralmente, come una questione relativa all’esercizio della propria libertà. Certo: non sempre è chiaro in quale senso, qui, il termine “libertà” dev’essere inteso. Non è precisato, cioè, se si tratta di una libertà da ogni vincolo che uno Stato o un’opinione dominante starebbe imponendo a tutti, oppure di una libertà che permette di fare davvero quelle cose che senza tali vincoli non sarebbe possibile attuare. E soprattutto non sono affatto considerate le conseguenze a livello collettivo dell’esercizio della libertà individuale, né il fatto che ritiene di agire liberamente anche chi di tali conseguenze tiene conto e proprio perciò, sempre liberamente, decide di autolimitarsi.
Considerando tutti questi modi di esprimere il proprio essere liberi, ciò che ne consegue è un quadro complesso, spesso confuso. Bisognerebbe dunque fare chiarezza. E invece, il più delle volte, non servono certo allo scopo le prese di posizione di alcuni fra coloro che sarebbero propriamente chiamati a fornire orientamento: si tratti di filosofi o di scienziati.
Non intendo tuttavia soffermarmi sulle polemiche da essi provocate, né desidero esserne risucchiato, a rischio di alimentarle ulteriormente. Voglio però sottolineare che chi vi ha partecipato ha seguito un approccio unilaterale, che ha spesso monopolizzato, purtroppo, il modo in cui ci si è posti di fronte alla pandemia e si è ritenuto di dover fare i conti con essa. Di conseguenza, intervenendo sull’opinione pubblica e contribuendo a fornire una cassa di risonanza per alcune idee più o meno giustificate che in essa si venivano formando, i sostenitori delle varie tesi contrapposte hanno finito per dire la loro, implicitamente, anche sulla possibilità di ripresa del nostro paese e sui modi di favorirla attraverso una gestione delle problematiche concernenti il mondo del lavoro.
È già stato rilevato, in alcuni interventi apparsi sul «Diario del lavoro», come la somministrazione dei vaccini sia stata un’occasione mancata per il rilancio e lo sviluppo delle relazioni industriali, grazie al fatto che proprio a tale scopo poteva essere sfruttata la necessità di gestire l’emergenza. Il tema della vaccinazione è stato per lo più oggetto non tanto di un confronto negoziale, riguardo per esempio alle modalità e alle forme in cui tale vaccinazione poteva essere eseguita, bensì, come in altri casi, di una vivace contrapposizione. E se il fatto non sorprende, in un’epoca di polarizzazione e di estremismi senza mediazione, esso comunque ha provocato ulteriori tensioni rispetto a quelle a cui ho già fatto riferimento: utili certo per vendere qualche copia di giornale in più, ma non sempre per favorire un modo di pensare condiviso.
L’impressione generale, in questo caso così come in altri, è che si voglia che alla fine sia qualcun altro a decidere. Il decisore chiamato in causa è ovviamente il Presidente del Consiglio, a cui viene delegata in questo specifico caso la responsabilità di optare per l’obbligo vaccinale. Mario Draghi, a sua volta non si sottrae a tale incombenza, e dichiara esplicitamente che «le cose vanno fatte perché si deve, anche quando sono impopolari». Si tratta di una dichiarazione significativa. Con tali parole, infatti, egli rompe con un costume politico ormai trentennale, per cui le decisioni sono prese non tanto sulla base di un progetto politico o di quello che è oggettivamente l’interesse del paese, ma a seguito di un sondaggio e sempre facendo in modo di non contraddire gli umori dell’opinione pubblica, o almeno della sua componente maggioritaria. Ma soprattutto con tale atteggiamento finisce per sgravare le parti sociali dall’onere della decisione e dalla necessità di mediare per rendere tale decisione effettivamente applicabile.
Tutto ciò è pericoloso. Lo è per vari motivi. Anzitutto per il fatto, come dicevo, che così si determina una vera e propria cessione di responsabilità da parte dei soggetti coinvolti. Mi riferisco specificamente agli imprenditori e ai sindacati. La responsabilità è quella di gestire la situazione di emergenza, di operare la necessaria contrattazione sulle questioni oggetto di contesa e di giungere, infine, a un risultato condiviso. È in gioco, in altre parole, la possibilità delle parti sociali di cooperare, fra loro e con il governo, alla soluzione di un problema reale. È in gioco la capacità di assumere davvero l’iniziativa, perseguendo un esito comune, rivendicando ciascuno la propria autonomia e salvaguardando le esigenze dei propri rappresentati. Invece, nello scenario che abbiamo sotto gli occhi, quest’autonomia si è trasformata nella rivendicazione di un diritto astratto, l’iniziativa è diventata il più delle volte solo mediatica e il problema sembra risolversi solo nell’accesso, o meno, a una mensa aziendale di persone munite, oppure no, di green pass.
Ne risulta, di fatto, quella delega a un decisore esterno di cui parlavo. Con tutti i rischi, evidenti, che ciò comporta. Tale delega, certamente, può risultare comoda. Di più. Essa risulta conforme e sinergica alla politica che il governo finora ha seguito. Si è trattato di un percorso animato – oserei dire – da un intento pedagogico. È iniziato con una moral suasion riguardo alla necessità di vaccinarsi, è continuato introducendo progressivamente una serie di restrizioni nella vita quotidiana e nell’accesso agli spazi pubblici per chi non lo fa, e si è concluso con l’obbligo del possesso di un certificato di vaccinazione per svolgere il proprio lavoro, sia nel comparto pubblico che in quello privato.
È chiaro che, prima o poi, ci si accorge della strategia che sta alla base di questo processo. È come se venisse piano piano tolta l’acqua a un pesce. E dunque è comprensibile che intellettuali abituati a ragionare astrattamente interpretino tale situazione come un attacco alle libertà fondamentali dell’individuo. Non si tiene conto però, in queste prese di posizione, del fatto che una decisione riguardo alla gestione della pandemia va presa, nell’interesse non già del singolo individuo ma della società intera. E se, come abbiamo visto, le parti sociali, e più in generale le varie componenti delle nostre comunità, non sempre sono in grado di giungere a soluzioni condivise, allora la delega a un’istanza ulteriore finisce per essere inevitabile. Meno male, d’altronde, che qualcuno la responsabilità di decidere se la assume.
Ci troviamo dunque di fronte a una situazione un po’ schizofrenica. Da una parte si rivendica la libertà individuale, in maniera astratta e in forme spesso incapaci di realizzarsi tenendo conto delle esigenze e della libertà altrui. Dall’altra si rinuncia surrettiziamente a questa libertà non prendendosi la responsabilità di decidere e anzi lamentandosi se qualcun altro lo fa per noi. Si tratta di un esempio, a ben vedere, di quell’immaturità che affligge il nostro corpo sociale e che si manifesta in molte delle sue espressioni. Sembra infatti che sia preferibile intendere la libertà come libertà di dire solo no, in forme contrappositive e distruttive, piuttosto che realizzarla, sia pur faticosamente, costruendo un’intesa.
Dobbiamo dunque crescere. Emanciparci. Ma non contro qualcuno o contro qualcosa, bensì per noi stessi. Per la nostra realizzazione: di tutti e di ciascuno. L’esempio dei vaccini – non solo della vaccinazione che è richiesta per lavorare, ma anche del lavoro che ci viene fornito dalla necessità di produrre i vaccini – fornisce una chiara opportunità in tal senso. Nel primo caso è l’opportunità che ci spinge ad accordarci in vista di un obbiettivo comune. Nel secondo è quella che c’induce a sfruttare le possibilità che ci si prospettano. È bene non perdere l’occasione, né nell’uno né nell’altro caso. Solo così potremo davvero rimetterci, si spera definitivamente, dalla pandemia.
Adriano Fabris