La parola mancia sembra derivi dal francese antico manche, manica. A quei tempi andava larga, le dame ci mettevano i fazzoletti da affidare ai propri cavalieri, i commercianti ci nascondevano la scarsella con il denaro. Nel tempo è diventata sinonimo di dono, piccolo regalo, elargizione, ricompensa. Qualcosa che si dà non per atto dovuto ma come volontario riconoscimento di un impegno, di un servizio, di una cortesia. Quando invece le monete vengono fatte cadere nella mano tesa di un mendicante, ecco l’elemosina, dal greco antico, che significa avere pietà.
La distinzione non è in realtà così netta. Comune è il presupposto che la persona alla quale viene dato l’obolo, sia per ricompensarla di un qualche servigio sia per pura offerta, abbia comunque bisogno della nostra generosità. Una volta Giuliano Amato raccontò che tra la miriade di questuanti che ai semafori chiedono qualcosa, preferiva tirare giù il finestrino per regalare un soldo a chi offriva comunque una prestazione, lavavetri o giocolieri che fossero, mentre tendeva ad ignorare quelli con solo il cappello in mano. Come dire: il lavoro merita sempre di essere remunerato, la carità è una questione di coscienza e non sempre bisogna fidarsi di quelli che la chiedono.
Negli Stati Uniti la mancia è obbligatoria, in Giappone considerata offensiva, da noi discrezionale. Riteniamo giusto dire al cameriere “tenga il resto” o mettere qualche spicciolo sopra lo scontrino che posiamo sul bancone del bar? E quando un fattorino bussa alla porta, per consegnare una pizza o un pacco, gli diamo qualcosa per premiarlo della sua solerzia o perché ci fa pena? A spingerci è il nostro senso di colpa perché ci sentiamo privilegiati o perché sappiamo che è uno sfruttato pagato pochissimo e quindi vogliamo rimediare al cinismo padronale? O viceversa, non diamo nulla perché non sono fatti nostri, se la vedesse lui con il suo datore di lavoro, se fa questo è comunque un incapace o un fallito, un diverso, un paria? E già, perché nel nuovo medioevo anche la povertà torna ad essere una colpa. E le umili mansioni bollate con un marchio di inferiorità.
Una ridda di riflessioni e interrogativi rinnovellata dalla polemica dei rider contro i vip dal braccino corto. Ma al di là della constatazione che di solito i ricchi sono avari, è balzato alla ribalta il tema di quanto siano poco pagati e ancor meno tutelati coloro che in bici o in motorino si affannano a consegnare le ordinazioni, sperando di ottenere subito altre comande. Hanno fatto bene i sindacati a mettere anche questa vicenda al centro dei discorsi in occasione del primo maggio, una data, come ricorda Giuseppe Sircana nel suo libro ad essa dedicata, che storicamente oscilla tra ricorrenza e rivendicazione. Questa volta sembra prevalere il secondo aspetto. Anche se incombe sempre il rischio che passata la festa, gabbato lo santo. Ben venga anche la discussione sulla paga minima oraria, pur nella diatriba tra legge e contratto. La verità, però, è che tutto questo non basta. Incombe un’enorme questione salariale, certo. Ma non si può far finta che al centro di tutto non ci sia il tema generale della produzione e della distribuzione di merci, prodotti e servizi e del loro consumo.
Quando ordiamo la cena al telefono, mancia o non mancia, dovremmo interrogarci sul tipo di società nella quale viviamo. La società del capitalismo applicato ad internet, dove c’è stata sì una generale massificazione ma nella quale le differenze permangono e anzi si sono allargate, con una progressiva spinta della piccola borghesia verso le classi subalterne. Pedalatori, sfruttati, precari, sottopagati, disoccupati, poveri, umiliati, alienati, ingannati, disperati, emarginati, omologati, disprezzati. A loro, invece che alle élite, dovrebbe parlare la sinistra. Altrimenti, come un tempo fu per il sottoproletariato, diventano sempre più la massa di manovra della nuova destra.
Marco Cianca