Le radici di una crisi – che sia geopolitica, economica, sociale – si ancorano a livelli di profondità tali da apparire insondabili; esse si intrecciano e si innestano le une alle altre nutrendosi vicendevolmente, formando l’inestricabile viluppo della Storia che tuttavia non è mai casuale. Spetta all’Uomo, demiurgo di questo meandro, calarsi nell’ipogeo e farsi largo verso l’origine. Aldo Barba e Massimo Pivetti si muovono lunga questa direttrice nell’analisi del fenomeno della mondializzazione, partendo dall’interessante presupposto, quantomai ossimorico, di messa in discussione del concetto di libertà: di movimento dei capitali, delle merci e delle persone. Tre radici che sostengono il mondo così come lo conosciamo, quello stesso mondo da cui alcuni stanno traendo il massimo profitto e benessere; tre radici che tuttavia i due autori interpretano come i «tre maggiori ostacoli che si frappongono a ogni miglioramento duraturo delle condizioni di vita dei ceti popolari di qualsiasi nazione». E Il lavoro importato. Immigrazione, salari e stato sociale, primo volume di una trilogia su fenomeni ed effetti della mondializzazione, prende in esame e decostruisce autopticamente più che il concetto stesso di libertà di movimento delle persone coinvolte nei fenomeni migratori, gli effetti che questi hanno sulla popolazione lavorativa autoctona delle terre d’approdo.
Con inconsueto ardire analitico, del tutto controcorrente rispetto alla narrazione comunemente (o tacitamente) accettata sull’immigrazione, Barba e Pivetti propongono una teoria di «controllo severo dell’immigrazione» non intesa «solo al contrasto dell’immigrazione clandestina», ma tesa a «difendere una politica incondizionatamente restrittiva di ogni tipo di immigrazione». Un presupposto controverso che sembra scontrarsi con il buonsenso, e di questo i due autori sono perfettamente consapevoli – «chiunque sostenga la necessità di porre dei limiti alla libera circolazione delle persone, viene oggi sospettato di simpatie verso la destra estrema» -, sebbene le loro posizioni siano notoriamente lontane da fascismi, razzismi e derive xenofobe. Ma in questo volume i due autori fanno la tara al problema – all’emergenza, alla crisi – dell’immigrazione usando come reagente il rovesciamento della teoria dell’occupazione e della distribuzione marginalista (neoclassica), interpretandolo piuttosto come un fattore di «importante di aggravamento degli effetti della mondializzazione sul potere contrattuale dei salariati nei paesi a capitalismo avanzato e sulle condizioni generali di vita dei ceti popolari». Il punto, in sostanza, è «impedire che masse di lavoratori disposte a lavorare di più per meno entrino in concorrenza con il lavoro dipendente indigeno contribuendo a indebolirne il potere contrattuale e a peggiorarne le condizioni generali di vita», perché «solo escludendo ogni concorrenza tra lavoratori di nazioni diverse possono aversi forme concrete di solidarietà internazionale». Gli immigrati, infatti, ingrosserebbero le file dell’esercito industriale di riserva e, secondo le logiche consolidate del sistema capitalistico, la loro pressione influenzerebbe «il meccanismo che regola il salario, costringendo i lavoratori occupati ad accettare più ore di lavoro, condizioni di lavoro peggiori e remunerazioni più basse». L’immigrato, citando Marx, «viene depresso al minimo salario e si trova sempre con un piede dentro la palude del pauperismo», privato delle tutele che proteggono i lavoratori autoctoni «e portatore di una “convenzione” frutto di un ben più arretrato grado di sviluppo socio-economico». Ed è così che si esercita una «pressione al ribasso sul salario», che dipende «anche dal suo (dell’immigrato) trovarsi in una condizione di povertà e di bisogno dalla quale i salariati autoctoni si sono in diversa misura emancipati […] L’immigrato è portatore di una convenzione prossima al minimo della sussistenza fisiologica e la sua concorrenza tende a imporre questo più basso standard retributivo ai più avanzati lavoratori nativi».
Questa è l’origine dell’ostilità dei ceti popolari nei confronti del fenomeno dell’immigrazione e le campagne politiche della destra sono state imperniate proprio su questo rigetto, sul fallimento dell’integrazione degli immigrati nelle rispettive società, «un fallimento divenuto sempre più evidente insieme al degrado progressivo delle condizioni di vita che lo ha accompagnato […] Il degrado dovuto alla presenza di una crescente popolazione immigrata si è sommato alla disoccupazione, alle deregolamentazioni del mercato del lavoro, alla precarietà, ai bassi salari e al deterioramento della protezione sociale nel determinare in una parte crescente della popolazione autoctona un senso acuto di insicurezza e di vero e proprio abbandono al proprio destino da parte delle autorità statali e delle forze politiche tradizionali, in primo luogo quelle di sinistra». Barba e Pivetti attaccano frontalmente il progetto della costituzione di una «democrazia interculturale moderna» operato dalle forze liberiste, sostenendo che quanto «nessuna democrazia multiculturale moderna riuscirebbe a far sparire, è l’ostilità popolare verso chiunque sia disposto a lavorare di più per meno, e la cui presenza massiccia finisca anche per rendere sempre più arduo l’accesso ai servizi pubblici essenziali e per peggiorarne severamente la qualità».
Il dito è puntato contro la cultura e le forze di sinistra, nonché contro il sindacato, miopi dinanzi alla catastrofe sociale che si sta verificando in nome di un “buonismo” senza frontiere che non tiene in dovuta considerazione i bisogni della classe lavoratrice autoctona e anzi, da essa sempre più scollata. «La sordità della sinistra rispetto al tema dell’impatto negativo dell’immigrazione sul mondo del lavoro va persino oltre il vuoto ideologico e programmatico nel quale essa è scivolata negli ultimi decenni. Il punto è che avendo riempito questo vuoto spostandosi dal terreno dei diritti sociali a quello dei diritti civili, assumere un atteggiamento “ragionato” nei confronti dell’immigrazione, ovvero farsi sostenitrice della necessità della chiusura, la priverebbe della sua residuale ragione di essere».
Barba e Pivetti disorientano per l’ortodossia con cui affrontano l’analisi del fenomeno migratorio, dando l’impressione di aver messo in piedi una provocazione a buon mercato che alimenti ancor di più il rogo in cui il buon senso sta andando a consumarsi con la scalata delle destre in tutta Europa. Una provocazione che si smaschera in fretta e che si bolla come faciloneria incendiaria per non perdere di vista i valori umanitari per i quali varrebbe davvero la pena spendersi. Se il capitalismo è il perturbante della società, qualcosa di dannoso che sappiamo esistere ma viene allontanato dalla consapevolezza assegnandogli ogni volta etichette diverse, è lì che bisogna insistere, agire con azioni di contrasto in avanti, non accanendosi sulla massa povera e aizzare lo scontro tra ultimi e penultimi.
Elettra Raffaela Melucci
Titolo: Il lavoro importati. Immigrazione, salari e stato sociale
Autori: Albo Barba, Massimo Pivetti
Editore: Meltemi – Collana: Visioni eretiche
Anno di pubblicazione: 2019
Pagine: 186 pp.
ISBN: 9788855190510
Prezzo 16,00€