Nei giorni scorsi Yoox (la principale impresa italiana di abbigliamento online) ha inviato un messaggio di questo tenore: non vi preoccupate se non potete uscire, noi ci occupiamo di consegnarvi direttamente il vostro ordine, e tranquilli ve lo portiamo a casa gratis.
Un messaggio forse rassicurante, ma anche inquietante. Questo tipo di messaggi si susseguono in questi giorni per invitarci a restare a casa: ma supportati dalle tecnologie e con abbondanza di mezzi, rovesciando lo stereotipo della scarsità dei tempi eccezionali, come quelli di guerra.
Lo scenario, prefigurato in qualche classico di fantascienza ha improvvisamente preso corpo. Le nostre città sono diventate spettrali ed irreali, la presenza umana improvvisamente ridotta al rango di marginale. E’ come una guerra (quella esperienza che è stata risparmiata alla mia e alle successive generazioni). È una guerra senza le privazioni che le si accompagnano storicamente, salvo quella – ovviamente fondamentale – della costrizione e del confinamento domiciliare. Siamo compressi, ma possiamo consumare. E, insieme ai negozi di alimentari, l’unica cosa che funziona davvero è il commercio a distanza in tutti i settori e ambiti possibili e immaginabili (anche se con qualche recente restrizione annunciata da Amazon). Neppure la fantascienza si era spinta fino ad immaginare il gigantesco paradosso nel quale siamo tutti immersi: privati di tutto ma non dei nostri amati beni di consumo, quasi sempre raggiungibili online. Nonostante i cattivi pensieri possibili non ci troviamo di fronte al disegno del capitale monopolistico e neppure delle grandi piattaforme tecnologiche che dominano il panorama economico del XXI secolo: ma siamo divenuti dipendenti, nel bene e nel male, proprio da quelle piattaforme. Alcuni già lo erano, ora lo siamo tutti e senza molti margini di manovra dentro i confini di questa situazione.
Ma generalmente per consumare bisognava lavorare e produrre. Può essere l’umanità tutta ridotta alla funzione esclusiva dell’uomo consumatore? E che fine fa il lavoro, che già si era spezzettato e avevamo definito come ‘lavori, e che ora sembra anche condannato ad essere più ‘virtuale’?
Stiamo attraversando un grande cambiamento, un cambiamento necessitato, che mette a nudo le ambiguità e i problemi non risolti del mondo di prima, mentre enfatizza – giustamente – le opportunità di alcuni miglioramenti, da cui tutti possono trarre beneficio.
Questo cambiamento lascerà probabilmente tracce irreversibili. Ed uno di questi tragitti sembra consistere nella sostituzione di tutto quanto è materiale (sul piano produttivo, non dei consumi) con tutto ciò che è immateriale. Ma è davvero possibile, e – ammesso che lo sia – lo possiamo ritenere auspicabile? Molte attività vengono erogate in smart working, con un incremento nei numeri e nell’intensità rispetto a quanto sia stato previsto in precedenza dalle imprese e dagli accordi sindacali.
Le nostre lezioni sono tenute a distanza, e quindi forse possono essere replicate senza bisogno di un momento di incontro, e senza neppure bisogno di tanti insegnanti. Le banche possono (in buona parte) chiudere, eppure i servizi che offrono continuano ad essere erogati. Le pubbliche amministrazioni funzionano (faticosamente) da remoto, e garantiscono alcune attività: meno di quante sarebbero necessarie, ma in apparenza più o meno come prima.
Allora interroghiamoci su cosa il nostro ritorno alla normalità prossima ventura avrà assimilato e rielaborato da questa crisi pandemica, al punto di non poterne più fare a meno.
Come sempre nei momenti di svolta le strade si biforcano e si riaffaccia la dialettica, sempre pronta in agguato, tra apocalittici ed integrati.
Per questi ultimi siamo davanti all’alba del nuovo mondo. E a questo punto siamo costretti ad addentrarci nelle sue magnificenze e non possiamo più tornare indietro. Tutte le opportunità si dischiudono davanti a noi per andare verso sorti magnifiche che investiranno (forse) tutti.
Per gli altri le scorie preesistenti, pure evitabili, trascinano con sé anche i residui positivi di umanità e socialità, e ci trascinano verso un mondo orwelliano, dove anche noi ci muoviamo come i robot sempre più numerosi e sempre più necessari, che circondano e ci avvolgono, e che ne diventano i veri protagonisti.
In altre forme riemerge l’illusione periodica della dematerializzazione del lavoro e del suo superamento (quella che in altri momenti era stata chiamata la fine del lavoro). Ma questa volta in modo più insidioso, perché l’affermazione di tecnologie sempre più intelligenti (l’intelligenza artificiale) può persuaderci che siamo non di fronte ad una triste fine, ma piuttosto ad un inizio glorioso: quello della liberazione degli uomini dalla schiavitù delle necessità pratiche.
Vediamo alcune delle aree di questo cambiamento processuale ed imprevisto.
La prima è quella dello smart working, intorno al quale è aumentata la retorica che già da qualche tempo lo accompagnava. Ed in effetti la situazione drammatica dentro cui siamo immersi ha fatto impennare i numeri di quanti lavorano – a questo punto non per scelta ma per necessità – da remoto. E’ bene enfatizzare portata e utilità di queste esperienze (come ad esempio fa da tempo Domenico De Masi). Nello stesso tempo vediamo anche i loro limiti. Esse infatti non possono riguardare tutti i lavoratori, ed anche nelle aziende più avanzate e di servizi che riguardano le comunicazioni non toccano più della metà della forza di lavoro. E per quanti investimenti ci possano essere nella digitalizzazione tutti quei servizi dai quali dipendiamo in questo momento – alimentari e di consegne – sono affidati largamente alla presenza fisica nei luoghi di lavoro e nei diversi segmenti della logistica. Quindi il nostro apprendimento dovrebbe consistere nel rafforzare ed estendere, per quanto possibile, le prassi di smart working facendo funzionare meglio e per obiettivi quanto ancora oppone resistenza (come una parte delle pubbliche amministrazioni ancorate ad obblighi procedurali). Ma dobbiamo sapere che bisognerà anche migliorare il lavoro degli altri: che forse sono più essenziali di quanto avessimo previsto.
La seconda è quella della didattica a distanza che si è imposta – per le note costrizioni – in tutti gli ambiti scolastici. Una bella esperienza che affina i nostri strumenti di comunicazione e ci consente di raggiungere – nell’università – anche più persone (quelli che non venivano a lezione). E vediamo ogni giorno apparire applicazioni tecnologiche che migliorano questa prospettiva. Ma dovremmo anche avere il coraggio di sostenere, accanto alla sua chiara utilità, anche la sua esplicita limitatezza. Limitatezza nelle relazioni sociali e nell’interazione, nonostante l’ottima supplenza svolta da diversi tra gli strumenti adottati. Ma non è solo una perdita di socialità, siamo di fronte anche ad una perdita di efficacia. Non è vero che queste modalità siano migliori di per sé, possono invece migliorare e rendere più duttili e multimediali la didattica d’aula. La quale, va detto, è bene che resti sempre il riferimento normativo in questa materia. Non vale dunque l’illusione confusamente nuovista che possa tranquillamente e senza danni essere del tutto superata.
La terza area è quella del ridimensionamento e dell’evaporazione di tanti lavori temporanei e flessibili, quelli che siamo abituati a definire come precari. Non è solo un questione di occupazione: anche se le previsioni dell’Ilo parlano di milioni di posti di lavoro in meno in tutte le economie. E’ che sta diventando visibile ed affermandosi una spaccatura nelle nostre società che era stata tenuta finora sottotraccia. Una evidente frattura che divide in due il lavoro. Da un lato noi che lavoriamo da casa, più o meno garantiti e spesso con un salario assicurato. E da un’altra parte un secondo mercato del lavoro, che anche quando lavora come noi non ha diritto agli stessi benefici (e spesso deve lavorare per garantirli a noi). Una delle illusioni emergenti è che di questo secondo mercato del lavoro ci si possa liberare, o che richieda al meglio misure assistenziali. Mentre invece dovremmo ragionare su politiche che creino il lavoro e lo distribuiscano meglio, aumentando le opportunità per tutti.
La quarta area è quella dei tanti che non possono lavorare da remoto. Sono questi che danno continuità al lavoro materiale e ai servizi essenziali. Sono anche i più esposti, tanto che minacciano – con motivi fondati – di scioperare. Ma forse dovremmo imparare a riscoprire e valorizzare le attività di questo grande esercito, che siamo abituati a considerare dall’alto come una massa più o meno insignificante di lavoro esecutivo. Scoprire quanto dipendiamo da loro ci aiuterà forse a capire le chiavi di un necessario ripensamento della giustizia distributiva.
Siamo immersi un quadro ambivalente che porta tanti di noi a incontrare nuove opportunità per lavorare meglio, ma con il rischio di rafforzare il senso di inutilità di una parte del lavoro e dei lavoratori (e pure riducendo i numeri occupazionali). Una ambiguità dalla quale non ci salverà il ruolo taumaturgico delle tecnologie e del mercato (da cui non si può comunque prescindere). Ma solo uno scatto di ridisegno delle politiche pubbliche e delle intelligenze collettive. Senza questo scatto i miglioramenti ci saranno, ma solo per una parte delle nostre società: dunque è in gioco la capacità di metterli a disposizione di un universo più ampio.
Siamo tutti più soli, anche se sempre connessi, come auspicava Rifkin. Non sappiamo ancora se questo produrrà esiti solidarizzanti, o invece rafforzerà l’individualismo rancoroso di cui ha parlato il Censis: vedremo, ben sapendo e sperando che in queste condizioni alcuni legami si rafforzano.
Non siamo però isolati, e non solo grazie alle connessioni tecnologiche.
Continuano ad operare le grandi organizzazioni di rappresentanza. Pensiamo non solo ai macro-incontri nazionali relativi alla fissazione delle regole del momento (aperture, chiusure etc.). Ma al lavorio continuo delle – tante tantissime – pratiche su cui si impegna quello era il retrobottega dei servizi, offerto da tutte le associazioni ai loro iscritti. Un backstage destinato sempre di più a diventare attività centrale e che continua a funzionare a pieno ritmo spinto dalle necessità. Dunque il ruolo, spesso criticato negli anni scorsi, della ‘intermediazione’ ne esce rafforzato nella capacità di dare continuità. ed anche senso, alla nostra vita collettiva. Anche le relazioni industriali possono apprendere qualcosa di positivo, senza rinunciare ai loro caratteri di fondo. Dopo le riunioni telematiche tra governi e sindacati, forse è venuto il momento di sperimentare anche trattative a distanza, e meccanismi di coinvolgimento in questi processi dei lavoratori e dei diretti interessati più sincronici ed immediati, grazie alle nuove generazioni di social media.
E poi, non dimentichiamolo, che stiamo rientrando in un’epoca che esalta spontaneamente il ruolo dello Stato. Stato protettivo e Stato che fissa criteri e divieti. Dallo Stato, che non lascia soli, dipendiamo più di prima. Dalle sue misure, che qualche volta critichiamo, e dalle sue provvidenze, che tutti vorrebbero più ampie: a partire da quelli, come Milano e la Lombardia, che predicavano fino a poco tempo fa la loro autosufficienza. Appare però incontestabile che lo Stato regolatore avrà il compito di portarci fuori dall’emergenza sanitaria, Ma dovrà anche essere – non sembrano esserci alternative – lo stimolatore della fuoriuscita da una crisi economica e occupazionale che si preannuncia drammatica. Il vero interrogativo non riguarda se lo sarà, ma come: con quale ampiezza di mezzi, con quanta capacità di stimolazione verso gli attori privati e il mercato, con quale profondità e istituzionalizzazione degli interventi. Sarebbe forse il caso di cominciare a parlare – e progettare – un ‘nuovo’ new deal.
Mimmo Carrieri