Il mondo del lavoro è in grande trasformazione. Le nuove generazioni hanno obiettivi e richieste molto diverse dal passato, materiali, e più spesso immateriali. Esprimono esigenze differenti tra loro, che però devono essere tenute tutte in considerazione. Perché l’alternativa è che i lavoratori non si sentano più capiti e abbandonino la dimensione collettiva, lascino il sindacato. Per evitarlo, il sindacalista deve cambiare lo sguardo, deve essere pronto a esplorare il nuovo, a capirlo e gestirlo tenendo conto della profonda differenza che esiste tra tutte le richieste che le nuove generazioni portano avanti. Un’indagine condotta tra 400 delegati della Fim, il sindacato dei metalmeccanici della Cisl, ha mostrato le difficoltà che questi delegati, la prima linea del sindacato, incontrano tutti i giorni, ma anche la loro disponibilità a cambiare. Ce ne parla il responsabile della formazione della Fim, Rosario Iaccarino.
Iaccarino, la Fim, il sindacato dei metalmeccanici della Cisl, ha svolto un’indagine tra ben 400 dei suoi delegati in tutta Italia. Cosa avete chiesto?
Abbiamo chiesto al delegato come si sente nel suo lavoro, cosa vede nel cambiamento profondo in atto, quali aspetti problematici incontra e come, a suo avviso, si possano risolvere. Un’indagine delicata, perché i delegati sono la prima linea del sindacato, incontrano tutti i giorni le persone che sono al centro di questo grande cambiamento del lavoro.
Il lavoro sta cambiando?
Profondamente. Dal punto di vista organizzativo, nella cultura del lavoro, nell’aspetto tecnologico. E questo mette in difficoltà coloro che devono rappresentare i lavoratori, perché si muovono con mappe datate. Il territorio è mutato e continua a modificarsi, cambiano le aspettative, i bisogni, i desideri. C’è un forte ritorno di attenzione sul senso che si dà al lavoro rispetto all’insieme della propria esistenza. Basterebbe guardare al fenomeno delle grandi dimissioni. La mobilità da un posto all’altro c’è sempre stata, ma le giovani generazioni stanno mettendo in evidenza l’esigenza di un riequilibrio tra le esigenze materiali e quelle immateriali.
Un lavoro duro quello del delegato?
Soprattutto se utilizza codici di comunicazione di un’altra fase sociale. I delegati Fim hanno sempre avuto una forte attenzione alla dimensione materiale, percependo che le persone in prima battuta devono risolvere problemi materiali.
E non è giusto così?
Ascoltando le persone, cercando di mettersi nei loro panni, ci si accorge che c’è una domanda molto forte spostata sulla dimensione immateriale. Il salario è importante, ma forse non è la cosa più importante. Le giovani generazioni chiedono altro, e il delegato deve avvertire e rispondere a queste esigenze, altrimenti resta spiazzato rispetto a coloro che deve rappresentare.
Ne parla come di un fenomeno nuovo, ma la società non è sempre cambiata, negli anni?
Il punto è che oggi tutto tende a essere più spinto. Le persone più anziane hanno una forte disponibilità ad assecondare le esigenze delle imprese, perché hanno un’etica del sacrificio. I giovani hanno un’etica del benessere, guardano ad altro.
Cosa vogliono?
Per esempio, maggiore trasparenza nell’ingaggio professionale. Se devi lavorare otto ore e te ne chiedono di più, qualcosa non funziona. Ancora, chiedono un ambiente di lavoro accogliente, non ostile. E queste cose le chiedono prima ancora di avere più salario. Tutto ciò le aziende lo sanno bene, perché sono alle prese con problemi immensi su come trovare e soprattutto mantenere giovani in azienda.
Come si intercettano questi nuovi bisogni?
Con una nuova disposizione all’ascolto delle persone. Il sindacalista deve per prima cosa rappresentare il lavoratore: il pericolo, se pensa di non essere ascoltato e capito, è che si rifugi nell’individualismo, che non ragioni più in termini collettivi. È un dato di fatto che il diritto del lavoro sta scivolando verso una dimensione civilista, perché molti si sfilano dalla rappresentanza collettiva e si rifugiano sul piano vertenziale individualista, verso la magistratura.
È a rischio la rappresentanza collettiva?
Rischia di cedere. Noi tradizionalmente operiamo in una dimensione collettiva, ma prima i bisogni erano omogenei. L’emersione di questa soggettività plurale, perché ognuno ha un suo progetto di vita, deve essere rispettata. Servono codici plurali che ci mettano in comunicazione con persone diverse tra loro. Il delegato non può non rappresentare la realtà plurale con la quale si confronta. E la formazione deve potenziare i sindacalisti, aiutandoli e insegnando loro come sia possibile tenere assieme le persone, anche quando vogliono cose molto diverse tra loro.
Quanto è diffusa la consapevolezza che il mestiere del sindacalista è cambiato e servono strumentazioni diverse dal passato?
Si sta diffondendo perché cresce la frustrazione di non riuscire a fare il proprio mestiere e a rappresentare i lavoratori. Le persone continuano a iscriversi al sindacato, ma serve una fatica molto maggiore di prima.
Lei pensa che questa diffusione sia sufficiente o il sindacato è destinato ad arrancare?
Arranca quando la duttilità a cogliere il cambiamento è scarsa. La politica non si cura delle persone, il sindacato sì, ma deve cambiare lo sguardo. Altrimenti è tutto inutile. C’è resistenza a cambiare pelle, ma la necessità di riuscirvi è sempre più evidente.
C‘è il rischio di una frattura generazionale, che si guardi troppo ai giovani e si perdano i vecchi?
Ma noi dobbiamo tenere tutti assieme. Non possiamo fare altrimenti.
Massimo Mascini