La rappresentanza del lavoro sembra più pronta della politica ad accogliere la sfida dell’innovazione: imprese e lavoratori sono i soggetti che direttamente vivono da anni la trasformazione della produzione, le imprese, a loro volta, sono i primi ecosistemi in cui si fa i conti con la globalizzazione, compreso l’impatto, non irrilevante, delle migrazioni. Dunque, è alle parti sociali che spetta oggi il compito di “aiutare” le nostre smarrite società a superare la fase di passaggio rappresentata, da un lato, dall’innovazione tecnologica e dai suoi sconvolgimenti e, dall’altro, dall’avvento dei populismi-sovranismi.
È questa, in estrema sintesi, la tesi sostenuta da Giulio Giorello e Giuseppe Sabella, (rispettivamente docente di Filosofia della Scienza presso l’Università di Milano direttore di Think-industry 4.0, think tank specializzato in lavoro e welfare) nel loro ultimo saggio, “Società aperta e lavoro: la rappresentanza tra ecocrisi e intelligenza artificiale” (ed. Cantagalli).
Il libro è una approfondita analisi dei problemi innescati dalla crisi e dalla globalizzazione, che si ripercuotono con onde successive non solo sul mondo del lavoro ma anche sulle rappresentanze stesse e le società nel loro complesso. Oggi, affermano gli autori, lo sviluppo economico e del lavoro è “l’unica strada per la tenuta sociale dell’Europa e per la ricostruzione della società aperta, il grande edificio della cultura europea prima ancora che occidentale”. Per questo, l’Unione Europea dovrebbe mettere al centro dell’agenda politica il lavoro ma anche la questione nord-sud; dove il sud -sottolineano- non è soltanto la sua area mediterranea, ma anche l’Africa, la cui demografia in costante ed esponenziale espansione (si stimano 2,5 miliardi di abitanti entro il 2050) rischia di “travolgere” l’Europa stessa. Motivo per cui la questione migratoria non può ridursi alla difesa dei confini: “il continente africano va in parte integrato e parallelamente aiutato a svilupparsi”.
Sono peraltro anche le grandi migrazioni avviate attorno al 2015 ad aver spinto il successo dei partiti populisti-sovranisti, aumentando il timore della perdita del lavoro o la sua precarizzazione. “Il fascino sovranista -affermano gli autori- è forte, perché esso in modo chiaro e perentorio, meglio di quanto abbiano fatto le vecchie élite, si propone di ristabilire un primato della politica per governare la globalizzazione, processo che le classi dirigenti hanno subìto accettando scambi senza reciprocità e ignorando quelle fratture sociali che si sono create”. La crisi del 2008, per gli autori, è l’esito di questa incapacità: “ciò che la grande contrazione ci ha consegnato è, soprattutto, una forte precarietà del lavoro, che significa precarietà della vita”.
In questo quadro, la società ha tenuta solo se esiste una reale e diffusa possibilità di inclusione sociale. Gli autori rimandano all’esempio del ’29, epoca in cui per la prima volta nella storia, la società si è misurata con la disoccupazione di massa: con la grande crisi, per la prima volta si verifica un blocco al processo di crescita delle economie di mercato moderne, che fino a quel momento si era immaginata ‘’senza limiti’’. Uno ‘’shock è potente”, sottolineano Sabella e Giorello, ricordando che fu proprio con la crisi del ’29 che si cominciò ad affermare in Germania il partito nazista.
Oggi, avvertono, abbiamo di fronte un quadro simile, dovuto ad altri fattori, ma non meno inquietante; e solo il lavoro può rappresentare “quella necessaria cerniera che tiene insieme economia e società, senza la quale la democrazia fatica a mantenere stabilità”. Già, ma quale lavoro, e quali condizioni? Nel corso della storia – ricordano gli autori- le trasformazioni economiche hanno sempre inciso sul lavoro: “oggi è evidente come l’abbattimento di ogni frontiera commerciale e l’economia sempre più globale abbiano provocato cambiamenti radicali nel lavoro, per esempio a livello di organizzazione, di contrattazione, di competenze richieste e di mobilità della persona. E dentro la quarta rivoluzione industriale, come del resto al tempo delle precedenti, il lavoro si rivela sempre più tratto essenziale del fenomeno umano”. Così come l’economia incide sul lavoro, però, anche un “buon lavoro” produce una “buona economia”.
Imprese e lavoratori, concludono gli autori, saranno in grado di affrontare la trasformazione soltanto camminando insieme verso il futuro. “L’uomo – affermano Sabella e Giorello- non prevede il futuro, ma lo può percepire. E la nostra capacità di percepire il futuro, anche se non è garanzia di successo, è fondamentale per provare a governarlo”.
Nunzia Penelope