E’ tempo di rapporti di fine anno ma i numeri non tornano. Il resoconto Istat, Inail, Inps e Anpal, finalmente “apparentemente” allineati sotto l’ombrello del Ministero del lavoro, dopo rapporti separati trimestrali molto confusi e spesso discordanti sui dati del lavoro italiano, racconta che “ il numero degli occupati è tornato a crescere”. Ma leggendo le tabelle “scopriamo” che sono diminuite le ore di lavoro e sono aumentati i lavorini con contratti di collaborazione occasionale, svolti da oltre 4 milioni di persone, con l’evidente fallimento dell’eliminazione dei vecchi voucher, abrogati e sostituiti con nuovi voucher ben poco appetibili. Non siamo sirene cattive, stiamo con i piedi per terra, anche supportati dalle considerazioni lucide del Cnel raccolte nel consueto notiziario sul mercato del lavoro che ci restituisce analisi molto concrete.
Vero è che persiste una minore occupazione rispetto alla media europea, una disoccupazione elevata ed elevatissima in alcune fasce demografiche, una ingente percentuale di soggetti inattivi, un marcato invecchiamento progressivo medio della popolazione attiva -l’età media del lavoratore italiano si attesta sui 44 anni- un persistente dualismo generazionale, territoriale e di genere, una elevata quota di occupati nell’industria manifatturiera, con una conseguente polarizzazione dell’occupazione attorno ad attività a bassa specializzazione. Dunque il Rapporto del nuovo sistema ministeriale non evidenzia per nulla alcune criticità che rischiano di rallentare il percorso di crescita del già lento nostro Paese, soprattutto nel contesto Ocse, in una fase di profonda trasformazione dei processi produttivi in cui l’Italia è ovviamente coinvolta.
Vi è una scarsa offerta di competenze accompagnata da una bassa domanda da parte delle imprese che si riflette anche nella carenza degli investimenti in termini di miglioramento dei processi produttivi. Il rapporto in ultima analisi ammette : le proiezioni per il futuro non sono incoraggianti, nei prossimi vent’anni è possibile anzi altamente probabile che l’Italia perderà sei milioni di persone in età lavorativa. Noi vorremmo capire quanto intende applicare il nostro Ministero del lavoro in un futuro molto prossimo dell’impegno assunto a fine settembre 2017 nel summit dei ministri del lavoro del G7, nel quale anche il nostro si è impegnato ad incentivare le competenze per i lavori per affrontare la trasformazione dell’industria 4.0,promuovere l’occupabilità, gli investimenti in istruzione e formazione per produrre benefici condivisi.
Ma è proprio sull’aumento delle disuguaglianze e della povertà, denunciate persino da Istat, che i conti non tornano. I dati sono proprio sconfortanti. Secondo Eurostat l’Italia è il Paese che conta, in valori assoluti, più poveri in Europa. È quanto emerge dalle analisi dall’Ufficio Statistico dell’Unione Europea sul tasso di privazione sociale. Nel 2016 i poveri erano quasi 10,5 milioni. La classifica è stata redatta basandosi su una serie di indicatori che valutano le possibilità economiche e di situazione sociale delle persone. Anche secondo dati resi noti dall’Istat sulle condizioni di vita degli italiani, nel 2016 si registra il record storico sia per le persone a rischio di povertà (20,6%) sia per quelle a rischio di povertà o esclusione sociale (30%).La stima delle famiglie a rischio povertà o esclusione sociale per il 2017 è infatti del 30% e qui ad essere registrato è un peggioramento rispetto all’anno precedente quando la percentuale era del 28,7. Secondo il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali la povertà è un fenomeno complesso che dipende da vari fattori, in quanto non deriva solo dalla mancanza di reddito ma anche dalle scarse probabilità di partecipare alla vita economica e sociale del Paese. Secondo quanto riportato dall’Istat, il rischio di cadere nella condizione di povertà riguarda sia gli individui considerati singolarmente (e si passa dal 19,9% al 20,6%), sia coloro che vivono in famiglie con pochi mezzi (e qui si passa dall’11,5% al 12,1%), sia infine persone che vivono in nuclei a bassa intensità lavorativa. Le aree più esposte al fenomeno sono quelle meridionali, ma anche il Centro del Paese non se la passa bene infatti un quarto dei residenti è a rischio povertà.
Alessandra Servidori