La campagna è quella intorno ad Auvers-sur-Oise, ad una trentina di chilometri da Parigi. Campo di grano con corvi. L’ultimo quadro dipinto da Vincent van Gogh. Evoca una tale solitudine assoluta da far intuire l’irrefrenabile pulsione ad uscire dalla vita. Resta il suo testamento, nonostante le puntualizzazioni dei critici, i quali sostengono che quell’anno, il 1890, prima di suicidarsi creò in realtà altre opere, non si sa però quali. Due piani orizzontali, giallo dorato nella metà inferiore, blu intenso nella superiore. Il cielo minaccioso, gli uccellacci, la distesa rigogliosa e accecante.
Aveva questo paesaggio davanti agli occhi, quando, a 37 anni, si sparò al ventre, sotto un albero, all’imbrunire, nell’ultima domenica di luglio. Poi si trascinò per qualche centinaio di metri, raggiunse l’abitato, senza che nessuno si accorgesse di alcunché, entrò nella locanda dove soggiornava da un paio di mesi e riuscì a salire la ripida e stretta scala per due piani, fino allo squallido abbaino che aveva scelto perché costava poco. Morì, dopo due giorni di agonia, su quel duro letto a molle, guardando le pareti scrostate e le tele che allora nessuno voleva comprare e che oggi valgono cifre da capogiro. Tra queste, il campo di grano con corvi.
Nel 1972, Cesare Zavattini dedicò all’opera un documentario, breve, dura meno di un quarto d’ora, ma talmente intenso ed esaustivo da risultare commovente. Il filmato, colonna sonora di Ennio Morricone, è stato ritrasmesso in questi giorni dai Rai Storia, forse per caso o forse perché il 30 marzo ricorreva l’anniversario della nascita del magnifico olandese (1853, Groot Zundert, un villaggio del Brabante settentrionale vicino alla frontiera belga).
Fatto sta che le parole appassionate dello sceneggiatore di “Miracolo a Milano” e le immagini del quadro allargato sullo schermo televisivo, provocano un’improvvisa suggestione. Ma sì, la forma del campo è tagliata in modo da assomigliare alla cartina dell’Ucraina. Provare per credere. Contagiati dalla follia di Van Gogh? Può essere, ma non pretendiamo tanto onore. E poi lo stesso Zavattini ricorda, quasi autorizzando ogni libertà interpretativa, che, nelle lettere al fratello Theo, Van Gogh confessava di essere sconvolto, in certi momenti, dall’entusiasmo e da una sorta di febbre profetica, come un oracolo greco.
D’altronde l’Ucraina può essere raffigurata come un granaio, il cielo plumbeo ha la tragicità della guerra e i neri predatori rappresentano gli invasori russi. Tutto sembra fosco. Eppure, emerge anche la speranza. Al Museo di Amsterdam, dove il capolavoro fa bella mostra di sé, ricordano che proprio il pittore asseriva di voler trasmette il senso di “salubrità e di forza” che sprigiona dalla campagna. Le spighe bucano le tenebre. E i tre sentieri d’erba piegata, tracciati con verdi pennellate, conducono fuori dalla mestizia e dal funereo contesto. Aggiungono la volontà alla potenza della natura.
Van Gogh, ci ricorda Zavattini, diceva che la miseria è infinita ma che nello stesso tempo la vita è bella. Voleva trovare l’indefinibile, qualcosa che desse coraggio all’uomo.
Non si è mai soli a credere nelle cose vere, scriveva al fratello.
I suoi colori ardono, rimarcava Karl Jaspers nel commentarne la potenza cromatica. E così, come per miracolo, a dire del filosofo, la realtà produce effetti fantastici. Allora la campagna attorno ad Auvers- sur – Oise può oggi trasmutare nel martirio dell’Ucraina, superando il tempo e lo spazio. E indicare, mutuando Antonin Artaud, “la porta occulta di una permanente realtà possibile”.
La via della pace passa sempre lungo un campo di grano.
Marco Cianca