L’Italia ha un problema di bassi salari? Domanda retorica: si, ce l’ha, eccome. Lo certificano continuamente report e uffici studi di ogni genere, ultimo quello dell’Ocse di martedì 9 luglio. Eppure, qualcosa si muove. È proprio l’Ocse a riconoscere che negli ultimi tempi le cose stanno cambiando. Dicono gli analisti parigini che “grazie ai rinnovi di importanti contratti collettivi”, nei primi tre mesi del 2024 “è arrivata una spinta ai salari pari al 2,8% in più rispetto all’anno scorso”. E la prospettiva è che la crescita prosegua anche nei prossimi due anni: ancora sotto la media europea, certo, ma comunque sopra l’inflazione, quindi con un sia pur lieve recupero del potere d’acquisto. La differenza la fanno i contratti: dove si rinnovano, le buste paga tengono testa all’inflazione, dove non avviene vanno drammaticamente sotto.
Ma in una Italia distratta ogni giorno da molte e per lo più vane polemiche, quel compito basico che è proprio del sindacato, cioè la contrattazione, non fa notizia. Nemmeno se proprio nella contrattazione risiede l’unico vero antidoto alla maledizione dei salari da fame e del lavoro povero. In questi mesi, fuori dai riflettori della comunicazione mainstream, le federazioni di categoria di Cgil, Cisl e Uil hanno sempre continuato a fare il loro lavoro contrattuale. E lo hanno fatto molto bene (oltre che unitariamente), tanto che c’è ormai una lunga serie di contratti rinnovati con successo. Una serie fortunata inaugurata dai chimici, che nell’arco di alcuni mesi hanno sottoscritto una ventina di contratti del loro vasto settore, tutti con aumenti superiori ai 200 euro. Poi c’è stato l’exploit dei bancari, che hanno ottenuto ben 435 euro: loro sì facendo almeno un po’ notizia, sia per l’entità della somma, sia perché la richiesta era stata subito appoggiata dal principale gruppo bancario italiano, Intesa San Paolo. E l’Abi non aveva potuto fare altro che accodarsi. Sulla stessa linea si sono mosse anche le Bcc, che per i loro 36 mila addetti nei giorni scorsi hanno firmato un rinnovo per pari cifra. Nelle ultime settimane – e ripeto: pressoché ignorati dai media – sono stati rinnovati molti altri contratti collettivi. L’ultimo è di giovedì 11 luglio e riguarda 70 mila addetti dell’industria armatoriale, con un aumento medio di 202 euro che, secondo i sindacati, potrebbe sortire un effetto trascinamento per altri contratti del settore trasporti. Nei giorni scorsi ha firmato anche il turismo, 400 mila addetti, con 200 euro di aumento. E nell’agricoltura: 220 euro per il comparto agromeccanico, mentre per i 22 mila tra quadri e impiegati le buste paga saliranno del 6,9%.
La lista è lunga. Spigolando dalla rubrica del nostro Diario del Lavoro dedicata alla contrattazione: nel settore alimentare gli addetti alla panificazione, 120 mila persone, hanno ottenuto un nuovo contratto con 206 euro in più, pari a un aumento del 12%; la cooperazione alimentare, a sua volta, ne ha avuti 280. Nella ristorazione e turismo, un milione di addetti, il terzo contratto più applicato, il 6 giugno è arrivato un aumento di 200 euro. Nel corso della primavera sono stati firmati gli accordi per la grande distribuzione moderna, con 240 euro di aumento, e quello della distribuzione cooperativa, stessa cifra. Ma anche i contratti di nicchia si adeguano: dall’acconciatura, estetica, tatuaggi e piercing, 140mila dipendenti in 60mila aziende, con un aumento di 183 euro, ai giocattoli, con 193 euro.
In vista ci sono poi tre rinnovi di peso: il tessile, 372.600 addetti, con richiesta salariale di 270 euro, l’edilizia, richiesta di 275 euro, e infine i metalmeccanici, che nella piattaforma hanno chiesto 280 euro. Cifra che la controparte Federmeccanica considera eccessivamente onerosa, mentre altre rappresentanze di impresa non hanno esitato più di tanto nell’accettare gli aumenti: un po’ perché i margini di profitto delle aziende ci sono, e sono abbondanti, un po’ perché la forza lavoro sta diventando rara, ed è quindi utile in primo luogo alle aziende rendersi attraenti con buste paga meno micragnose rispetto al passato. Va in questa direzione l’appello lanciato nei giorni scorsi dal governatore della Banca d’Italia Fabio Panetta, che ha sollecitato le imprese ad aumentare i salari: “i cospicui profitti fin qui accumulati – ha scandito – consentono alle imprese di assorbire la crescita salariale senza trasferirla sui prezzi finali”. Ovvero, si possono tranquillamente incrementare le retribuzioni senza incidere negativamente sull’inflazione e senza gettare sul lastrico le imprese.
Va aggiunto che i nuovi contratti, oltre alla parte “cash”, prevedono interventi sempre più consistenti sul welfare, sulla formazione, sui diritti, sul sostegno alle famiglie, fino ad alcune interessanti ipotesi di riduzioni d’orario. Per non dire dei premi di produttività distribuiti dalle singole aziende. Qualche esempio: i 5 mila dipendenti di Banca Sella a giugno hanno avuto tra i 1.983 e i 4.819 euro, Intesa San Paolo ha messo in tasca ai suoi 70 mila dipendenti tra i 1.150 euro a 2.950 euro. Luxottica ha stanziato 36 milioni per premi di risultato da 4 mila euro a testa. Nestle’ ha erogato 2900 euro, Pirelli 3000.
Naturalmente mancano ancora molti rinnovi contrattuali all’appello, e non bastano le pur numerose rondini a dire che siamo in presenza di una “primavera dei salari”. Anche perché in questo contesto tutto sommato positivo, che consentirebbe di sperare prima o poi in un riequilibrio delle retribuzioni italiane rispetto a quelle europee, spicca una nota assai stonata: ed è quella del settore pubblico. Lo Stato appare infatti di braccino cortissimo, gli aumenti annunciati per suoi dipendenti si aggirano sui 160 euro, cifra decisamente inferiore al più basso degli aumenti ottenuti dai privati. Le risorse stanziate dal governo per tutti i contratti sono di appena 8 miliardi, mentre secondo il ministro della PA Zangrillo, la richiesta dei sindacati di coprire interamente l’inflazione ne richiederebbe almeno 30. Distanza incolmabile, ma il vero punto è, come accusano i sindacati del pubblico impiego, che il governo non sembra avere alcuna intenzione di nemmeno iniziare a discuterne. Stando così le cose, il rischio è che il settore pubblico sia l’unico caso nel quale si ricorrerà agli scioperi per ottenere quanto ai lavoratori spetta. E certamente non sarebbe una medaglia, per quello che è comunque il primo datore di lavoro del paese.
Nunzia Penelope