Siamo al governo del Presidente. Lo scenario è cambiato e questo è un bene in sé. La distanza tra i partiti (tutti) e la realtà si era allargata a dismisura: la gestione della crisi (sanitaria, economica, sociale) era passata in secondo piano rispetto agli interessi e alle rendite di breve periodo. I bisogni degli italiani non erano su quel tavolo che abbiamo visto in Tv, dove si doveva concordare un programma per la ripresa e invece si discuteva di nomi e di numeri. La pantomima è finita. Per volontà del Presidente della Repubblica si è tornati alla realtà e alle sue emergenze. Un po’, mutatis mutandis, come quando Napolitano incaricò Monti nel 2011. Certo c’era una maggioranza politica che lo sosteneva, ma l’emergenza finanziaria fece sì che anche quel governo del presidente avesse sostanzialmente poteri pieni (e che il PD non riuscisse a impedire una improvvisata riforma delle pensioni e il primo depotenziamento dell’articolo 18 sui licenziamenti illegittimi).
Draghi ha in Europa (e nel mondo) ben altra autorevolezza, a prescindere dalla maggioranza politica che lo sosterrà. Ed è assai probabile che riesca a fare le cose che ha dichiarato: contrastare la pandemia, completare il piano vaccini, rispondere ai problemi quotidiani degli italiani, rilanciare il Paese con le risorse straordinarie che ci dà l’Europa, guardando alle nuove generazioni e al rafforzamento della coesione sociale. Sottolineiamo le sue ultime parole (mai pronunciate da Monti): il “confronto” rispettoso con il Parlamento e il “dialogo” con le forze sociali per comporre unità. Vedremo se Draghi sarà in grado di fare un governo con più competenze e solidità del precedente, come auspicabile. A maggior ragione se la maggioranza dovesse essere molto “composita”, o i partiti persi in altri teatri, toccherà alle forze sociali condividere e sostenere le scelte concrete del governo Draghi: come accadde con Ciampi.
Ma le forze sociali sono pronte? Per ora non si direbbe. Malgrado le assonanze tra le priorità enunciate da sindacati e imprese, non si è ancora fatto quel salto che già da almeno un anno appariva come indispensabile e urgente per uscire dal caos della politica leggera: guardare oltre l’emergenza e definire un Patto dei produttori per il Paese. Il secondo atto, ben più largo, anche nel nome e negli intendimenti, del confronto che aveva portato qualche anno fa a condividere un “Patto per la Fabbrica”.
Eppure non dovrebbe essere difficile: il lavoro prima di tutto, abbiamo sentito ripetere. Per essere più precisi: la difesa del lavoro che c’è e la creazione di nuovo lavoro legato alle priorità indicate da Draghi. Perché gli investimenti europei siano efficaci è necessario che portino alla creazione di nuove imprese e nuova occupazione (soprattutto giovanile e femminile): basta sussidi a prescindere, meglio redditi da attività produttive e di servizio legate agli obbiettivi indicati. Una sanità meno ospedalocentrica e più di prossimità vuol dire costruire strutture, erogare servizi aggiuntivi, creare nuove competenze e assumere. “Rilanciare il Paese” non può significare restaurare il modello pre-crisi: bisogna riconvertire l’edilizia, prevenire i rischi, rigenerare le città, ripopolare le aree interne, tutelare l’ambiente, valorizzare il territorio e il patrimonio culturale. Anche in questo caso c’è bisogno di creare nuove imprese e nuova occupazione, non basta difendere quelle che ci sono. Lo studio e il lavoro come veicolo per una cittadinanza piena (con diritti e doveri). E l’inclusione sociale, cosa significa se non maggiori opportunità e sostegno agli strati più fragili della popolazione? In questa logica il terzo settore può avere un ruolo decisivo, ma anche qui bisogna avviare e rendere trasparenti nuove attività, non far conto solo sul crescente volontariato solidale (cattolico o laico che sia). Un nuovo Welfare, insomma, non solo pubblico. Anzi due: uno per le persone e uno per il territorio.
Se condividessero un “Patto per il Paese” le parti sociali potrebbero dialogare in maniera costruttiva con il Governo del Presidente (che, se nasce, non durerà pochi mesi) e non ripetere la comparsata degli “stati generali” estivi. Evitare che Draghi diventi bersaglio di questo o quel partitino che vuole solo guadagnare qualche voto, o che, per difendersi da questo rischio, il presidente accentui il proprio potere monocratico, forte della sua autorevolezza. Senza il Patto navigheremo alla giornata, trasportati dai venti e dalle correnti: che non è un bel navigare.
Anche perché, ricordiamoci (se ne ricordi soprattutto il sindacato) che la lettera della Bce del 2011 in cui si chiedeva all’Italia di depotenziare i contratti nazionali di lavoro e di modificare la disciplina dei licenziamenti individuali era firmata anche da Draghi.
Gaetano Sateriale