E insomma è davvero finita. Dopo venti mesi “straordinari” – parole del premier uscente – il governo Draghi saluta e se ne va. In Europa giovedì notte lo hanno applaudito, in Italia lo hanno applaudito i giornalisti convocati a palazzo Chigi per un ultimo saluto. Più freddo il commiato della politica, con poche eccezioni. E forse prima o poi bisognerà capire per quale motivo, in fondo, il governo Draghi non piaceva granché a nessuno – intendendo non ai partiti, non ai sindacati: ai cittadini si, come provano gli indici di fiducia anche post voto- probabilmente per il banale motivo che non faceva toccare palla a nessuno (e qui occorrerebbe forse anche cercare il motivo per cui è stato silurato sul Quirinale.)
Fare un bilancio di questi venti mesi sarebbe lungo, ma si può riassumere in qualche dato. L’economia, innanzi tutto, che ha visto l’Italia sorprendere il mondo intero con un volo del Pil superiore a qualunque altro paese: la nostra crescita tendenziale nel secondo trimestre di quest’anno è stata del 5%, contro Germania 1,7, Francia 2,5, Regno Unito 4,4, stati Usa 1,5.
Poi il lavoro: gli ultimi dati Inps dicono che nel 2022 si registra un saldo positivo di un milione di nuovi contratti, e per di più con una impennata del 33% anche nei contratti a tempo indeterminato. Dati che non si registravano dal 2015. E infine il sociale: l’Ufficio parlamentare di bilancio nei giorni scorsi ha affermato che gli interventi del governo hanno attenuato dell’88% l’impatto dell’inflazione su 5 milioni di famiglie più povere.
Ma tutto questo è il passato, ora ci aspetta il presente: e cioè il primo governo di destra e a guida femminile della storia nazionale. Dalla prossima settimana l’Italia avrà un nuovo esecutivo a guida Giorgia Meloni. Che non ha tuttavia esattamente quel’ “alto profilo” promesso in campagna elettorale. La premier ha cercato a lungo di “assumere” tecnici di vaglia per rendere meno fragile la compagine dei ministri, ma con scarsi risultati. I motivi dei diversi rifiuti possono essere di vario genere. Convenienza, per esempio: mettere nel proprio Cv l’essere stato ministro con Draghi in un governo voluto da Mattarella, non è la stessa cosa che l’essere stato ministro con Meloni in un governo politico di destra. O possono aver pesato questioni economiche: la retribuzione di un ministro, circa 100 mila euro lordi annui, non è paragonabile a quella di un top manager. E infine perché, no, può esserci stato anche un po’ di maschilismo: prendere ordini da una donna, per di più giovane e inesperta, ancora non va giù a molti maschi pseudo alfa. Ma soprattutto, la mancanza di nomi di spicco dimostra che l’establishment nazionale, alla fine, ha deciso di non sbilanciarsi più di tanto nei confronti di questo esecutivo.
Sia come sia, è finita che nel governo ci sono per lo più nomi poco noti, personaggi di una politica di antica data ma spesso relegati ai margini, con poche o nulle esperienze di governo. Resta che, entro qualche settimana, la giovane donna che si è creata un partito di successo e che praticamente da sola ha conquistato l’Italia, dovrà dimostrare che il suo governo è in grado di affrontare e vincere sfide durissime anche per i più temprati. Una delle tante, quella europea sull’energia, che ha messo in difficoltà lo stesso Draghi, come dimostra l’accesissimo vertice della notte scorsa. Basterà la “consulenza” promessa per i prossimi sei mesi dall’ex ministro Cingolani per centrare il risultato? Tra l’altro, va ricordato che la Confindustria e il Medef francese hanno lanciato un drammatico un appello congiunto sui rischi di devastazione che corre l’intera industria europea a causa del disastro energetico, sollecitando una soluzione immediata.
Ma se questa sull’energia è la partita principale e più urgente che attende i nuovi ministri, tante altre l’accompagnano, con altrettanti dubbi. A Giancarlo Giorgetti, nuovo titolare del Mef, basterà la buona reputazione di amico di Draghi, nonché l’endorsement del ministro uscente Daniele Franco, per portare a casa la legge di bilancio in tempo per scongiurare l’esercizio provvisorio, ottenendo sia l’approvazione dell’Europa, sia quella degli alleati di governo? E Matteo Salvini, nuovo ministro alle Infrastrutture, si occuperà solo dei porti da bloccare contro le navi dei migranti? E ancora: a Marina Calderone, ministro del Lavoro, basterà l’esperienza di presidente dei consulenti del lavoro per trovare soluzioni condivise su temi quali la riforma previdenziale, il reddito di cittadinanza, il salario minimo, nonché le grane infinite che restano aperte, da Mps a Alitalia-Ita, a Whirlpool, al destino dell’auto? Nelle centrali sindacali sembra si registri una certa perplessità per la scelta; ma intanto la neo ministra ha incassato un plauso da parte del Pd per bocca di Debora Serracchiani, che da Bruno Vespa giovedì sera ha affermato: “la conosco, con lei si lavora bene”.
E i sindacati, già, i sindacati. Come si preparano a rapportarsi col nuovo esecutivo? Nei giorni scorsi Maurizio Landini, un po’ a sorpresa, ha rilanciato il tema dell’unita tra le confederazioni: un suo vecchio pallino, poi passato in secondo piano, e ora riproposto giusto alla vigilia dell’insediamento del primo governo di destra. Landini ha già chiarito prima delle elezioni, come anche gli altri colleghi di Cisl e Uil, che ogni governo, di qualunque colore, sarà giudicato dai fatti. Ma i fatti, appunto, potrebbero non essere quelli desiderati. Non è difficile immaginare che si farà presto a riempire le piazze se, per esempio, non ci fosse una risposta gradita a Cgil, Cisl e Uil sulla questione urgentissima della previdenza; e le prime indiscrezioni sulla soluzione che sarebbe allo studio del governo, detta “Opzione Uomo”, per ora ha incassato dei netti no. Ma nasce in salita anche il famoso patto sociale, che Landini ha sempre rifiutato a Draghi e che sembrerebbe invece interessato a concedere a Meloni: patto che però potrebbe essere complicato da realizzare, poiché richiede che ci si mettano soldi sopra, e difficilmente Meloni potrà fare scostamenti di bilancio. Tanto più che questo governo nasce sulla scia delle polemiche sulle parole di Berlusconi su Putin e la guerra russo-ucraina, e non c’è dubbio che questo sarà un motivo in più perché l’Europa ci tenga d’occhio come sorvegliati speciali sotto molti punti di vista.
Eh si, Giorgia Meloni va a governare nel momento più difficile. Un momento in cui sarebbe servita, forse, una mano più esperta, un team più rodato. C’è una vignetta di Makkox, pubblicata dal Foglio, che rende bene l’idea. Da un lato si vede la neo premier, in pigiama sui tetti a mo’ di sonnambula, candela in mano, che dice: “ah, st’Italia… non ci dormo la notte”. Nel disegno accanto, invece, un Draghi comodamente sdraiato sul materasso, che ronfa sereno. Ecco, forse anche gli italiani, con Draghi, dormivano più sereni. Ma parafrasando un famoso film, “questa è la democrazia, bellezza, e noi non possiamo farci niente”. Solo sperare di cavarsela.
Nunzia Penelope