Giovanni De Mauro, direttore di Internazionale, nell’editoriale che apre l’ultimo numero della rivista, riporta le osservazioni di Karin Wahl-Jorgensen, “docente – ci spiega – della scuola di giornalismo dell’università di Cardiff che studia la funzione delle emozioni nel giornalismo, in particolare quando ci sono disastri e crisi”. Il tema, ovviamente, è quello del coronavirus. Ebbene, ecco quel che sostiene la studiosa: “La prevalenza della paura come tema di fondo negli articoli suggerisce che la gran parte della copertura giornalistica tende a descrivere la paura dell’opinione pubblica più che informare su cosa stia succedendo dal punto di vista della diffusione del virus”.
Dalle colonne di Repubblica, Carlo Verdelli ammette che l’imprevedibile situazione “ci ha infilati in un tunnel, emotivo prima ancora che sanitario” e invoca: “Qualcuno parli al Paese”, per placare gli animi e rimettere a posto gli sciacalli. Luciano Fontana, rispondendo ad una lettera pubblicata dal Corriere della Sera, che invitava a non mettere per qualche giorno il virus in prima pagina, ha ricordato che in genere sono i vari regimi ad oscurare le notizie: “Informare è necessario, altrettanto necessario è farlo con oggettività, serietà e senza provocare allarmi che vadano oltre la realtà”.
Informare ha un doppio significato: 1) dotare di forma, modellare; 2) dare notizia, mettere a conoscenza di qualche fatto. I due obiettivi si intrecciano, è chiaro, ma di fronte alla totale confusione e all’isteria di massa rischiano di essere mancati entrambi. Come si può dare forma a ciò che forma non ha in quanto vago e sconosciuto? Come si possono fornire notizie se non quelle della caccia al virus quasi fosse un latitante al quale vanno messe le manette? Servirebbero studio, compostezza, umiltà, riflessione, competenza, coraggio. Doti scarsissime. E allora, al di là delle buone intenzioni, l’allarmismo prende il sopravvento e, assieme alla polemica politica, diventa l’unica merce veicolabile e vendibile.
L’apoteosi di questo caos concettuale e linguistico, la raggiungono i dibattitti televisivi, che alla generale confusione aggiungono la rissa verbale, la voglia di protagonismo. lo scontro tra narcisismi degni di miglior causa. Un bla bla bla incomprensibile se non pericoloso. Chiacchiere da bar sport. Siamo sempre lì, alla formula inaugurata da Aldo Biscardi e dal suo processo del lunedì. Vale per il calcio, vale per il governo e le opposizioni, vale per il coronavirus.
Questo è il punto. Il giornalismo come specchio della società e non come sua spiegazione. Un pericoloso gioco di riflessi, nel quale la paura rimbalza dall’ansia della gente all’improvvisazione dei mass media. In una spirale perversa di panico e di ignoranza. Al momento, l’unica certezza è che bisogna lavarsi le mani. Speriamo che una volta passata l’epidemia, almeno questo contribuisca a migliorare l’igiene pubblica.
Stig Dagerman, scrittore svedese di rara sensibilità, sosteneva che il giornalismo è “l’arte di arrivare tardi, il più presto possibile”. Noi aggiungiamo: “l’arte del sentito dire”.
Marco Cianca