“L’attesa è il futuro che si presenta a mani vuote” secondo Michelangelo. Mario Draghi, di recente, negli Stati Uniti pare abbia messo in pratica con le sue considerazioni questo monito esemplare. Gli scenari proposti disegnano lucidamente un periodo complesso che non sarà breve e che non può essere affrontato né con slogan, né con liti da comari, né con un consociativismo che per sua natura resta cieco sulla prospettiva.
Lo scenario immaginato non ammette distrazioni: l’economia soffrirà di un percorso in salita per non breve tempo. L’inflazione non sarà debellata facilmente, i deficit statali non potranno essere dilatati oltre misura, i tassi di interesse bassi non si riproporranno, la necessità di garantire inclusione e non espandere le diseguaglianze richiederà politiche economiche e sociali non certo populiste ma neppure liberiste, la politica fiscale dovrà essere rivista profondamente, i Governi e le Banche centrali saranno chiamati ad interventi che non deprimano troppo la crescita ma al tempo stesso sorveglino i dati fondamentali degli andamenti produttivi e salariali.
Come si è giunti a questo snodo non facile lo si deduce facilmente da quanto è accaduto nel primo scorcio degli anni duemila: la grande crisi, la pandemia, la geopolitica rivoluzionata anche a causa della guerra in Ucraina. Paradigmi storici consolidati sono saltati, l’Europa in particolare affronta la competizione per l’egemonia mondiale senza una bussola condivisa.
Non a caso sempre Draghi si sofferma molto sulla unità dell’Unione europea. Ma attenzione: inevitabilmente lo spirito pratico dell’ex Presidente della Bce e del governo italiano porta a privilegiare una unità…difensiva, di nome e di fatto. Del resto, i populismi, anche se non hanno prevalso, hanno frantumato l’opzione della maggiore coesione politica; lo strapotere della finanza come pure la pandemia hanno ridotto il primato della politica, vista pure la mediocrità e le incertezze delle classi dirigenti.
Oggi in Europa si cerca affannosamente di raggiungere accordi bilaterali, come nel caso dell’avvicinamento Germania-Italia, a scopo “protettivo” e si provvede a puntellare alleanze del passato che la geopolitica attuale ha rimesso in discussione. Giustamente si è affermato che il percorso della globalizzazione, inteso come una marcia inarrestabile verso prospettive sempre migliori per l’umanità, oggi si disperso come un fiume che invece di approdare in mare, finisce in zone paludose.
L’economia reale, in questo contesto, torna però ad avere un valore nuovamente rilevante. Il ritorno di produzioni in Paesi come gli Stati Uniti ne sono un segno anche se quell’occupazione “forte” non sembra scongiurare fasi recessive; il calo evidente di diversi punti nell’export della Cina segnala in realtà un cambio di rotta verso i consumi interni; Il cambiamento sempre più radicale del mondo arabo suggerisce la constatazione evidente che non ci sono più le sudditanze di una volta; energia, ambiente, alimentare sono terreni di confronto e di innovazione che risentono comunque ancora molto delle tensioni internazionali. Non ci sono più punti fermi. Semmai dovrebbe essere avviata una nuova ricerca.
Il nostro Paese malgrado i dati positivi dell’ultimo periodo, non può illudersi: rischia marginalità pesanti se non ritrova una strategia economica e sociale incompatibile con la politica degli slogan e delle demagogie.
Non ci sono molte alternative: non abbiamo una politica fiscale equa, ad esempio, ma neppure adeguata alle impegnative sfide da affrontare. C’è un welfare da ricostruire con pazienza ma anche con determinazione, dato che il Paese è comunque destinato ad allargare la sua componente anziana. Abbiamo un grosso problema di qualità e formazione nel lavoro e di tenuta nella politica salariale specie dopo che il risparmio delle famiglie ha provveduto a sostenere i redditi nelle fasi più difficili di questo periodo. Restano assenti politiche industriali antideclino manifatturiero, quando le altre grandi economie cercano di provvedere per garantirsi sviluppo ed autonomia nei mercati. La stessa condizione sociale e dei diritti richiederebbe una elaborazione culturale ed un confronto politico e sociale di portata ben diversa da quella che esaurisce nel talk-show.
È paradossale il confronto politico: si litiga sulla autonomia differenziata, sui controlli, sulla situazione sanitaria, mentre nel mondo è tornato centrale il ruolo dello Stato. Si dovrebbe partire da questo assunto invece che disperdersi in polemiche ed interventi che non possono essere in grado di rilanciare il Paese.
Ma anche il ruolo europeo dell’Italia avrebbe bisogno di una visione rinnovata ma propositiva. L’Europa di oggi vale sempre meno nel panorama mondiale e le sue debolezze possono trascinare verso il declino anche l’euro e gli assetti attuali. Non era immaginabile decenni fa che l’Unione Europea non fosse in grado di esercitare una comune ed autonoma iniziativa politica e diplomatica per disattivare i rischi di una guerra ai propri confini. L’Italia non può consolarsi all’infinito con il fatto che resta uno dei Paesi fondatori dell’Unione, deve poter svolgere un ruolo “nazionale” che incalzi le Istituzioni europee a ritrovare quella Europa sociale e politica smarrita.
In parole povere occorre ripartire con una ricerca culturale che è stata nelle corde dell’umanesimo riformista del passato, ancorato cioè a valori di riferimento precisi. La sinistra italiana attualmente pare sorda a queste sollecitazioni, si scompone e ricompone, si divide e si combatte senza uscire dalla riserva indiana in cui si è cacciata, accumulando indifferenza e sconfitte. Questa condizione dovrebbe essere già di per se stessa una priorità da affrontare con coraggio. Del resto, il tempo macina inesorabilmente opportunità e condanna i ritardi. Per di più è già di attualità una nuova sfida: l’intelligenza artificiale, uno strumento che potrebbe divenire ben presto un ulteriore simbolo di diseguaglianze profonde e forse di braccio armato di autoritarismi. La sinistra può svolgere ancora un ruolo importante: in Italia ed in Europa, ma deve ritrovarsi e lo può fare innanzitutto ripartendo da una lettura reale e coraggiosa della realtà economica e sociale. In questo senso non è all’anno zero. Ma come diceva Michelangelo restare prigionieri dell’attesa vuol dire solo perdere il futuro. E non è accettabile questa sorte che affida inevitabilmente alla destra, ai potentati, agli opportunismi le prospettive di un intero Paese.
Paolo Pirani – Consigliere Cnel