Un cambio di strategia dalle conseguenze catastrofiche
Un eventuale accordo tra Confindustria e Sindacati confedereali sull’istituzione di un unico fondo integrativo per la sanità su cui fare convergere tutte le risorse ora impiegate per il welfare contrattuale avrebbe un effetto deleterio sul nostro SSN.
Il risultato sarebbe equivalente a quello che avrebbe prodotto l’ex Ministro della salute Girolamo Sirchia del Governo Berlusconi con la sua proposta d’istituzione di un secondo pilastro assicurativo. Contro quella politica la CGIL fece una battaglia durissima risultata vincente. Stupefacente sarebbe oggi un cambio radicale di strategia con la scusa che sono i lavoratori a volere quei servizi che lo Stato non è più deciso a erogare per una precisa strategia di politica economica che nulla ha a che fare con la sostenibilità del nostro sistema sanitario. Per usare una metafora tratta dalla Genesi (seguendo così la strategia dell’attenzione della CISL verso Papa Francesco) sarebbe ripetere l’errore di Esaù che per un piatto di lenticchie perdette la primogenitura e la benedizione di Isacco in punto di morte.
Il problema delle risorse
Una grande istituzione come il servizio sanitario ha bisogno di risorse: risorse finanziarie, ma non solo. La qualità non è infatti solo questione di mezzi, tecnologie e infrastrutture. La qualità è in funzione del livello di professionalità espresso dalla risorsa umana che in esso opera e questa a sua volta è direttamente correlata alla motivazione e dunque a una fonte di energia immateriale. L’idrogeno che ha dato origine e che ora mantiene in vita il sistema impedendone il collasso sotto il peso della gravità è l’energia morale. Un combustibile invisibile e onnipresente come la materia oscura che circola come plasma negli interstizi del sistema conferendo stabilità e senso a quel che viene fatto.
E il nostro servizio sanitario, infatti, è figlio più che legittimo di una grande stagione d’idealità e partecipazione democratica alle scelte pubbliche. Alla sua origine non motivi finanziari, quantunque le mutue avessero prodotto ingenti disavanzi, ma le grandi lotte operarie contro la nocività in fabbrica degli anni ‘60 e ‘70 che ponevano con forza l’obiettivo di universalità delle cure e uguaglianza nell’accesso per tutti i cittadini.
Un’uguaglianza con conseguente diritto alla salute indipendente dal reddito, dallo stato sociale e dal comune di residenza. Un modello di servizio unico e valido erga onmnes finanziato con risorse pubbliche attraverso la fiscalità generale e quindi sulla base della capacità contributiva di ogni singolo cittadino.
Il livello di finanziamento attuale e le diseguaglianze crescenti
Nel 2016 le risorse dedicate alla sanità sono state pari al 7% del PIL, in leggero calo rispetto al 2015 e corrispondenti a un valore di 116,147 miliardi. Le due principali fonti di finanziamento sono state per il 55,2% il gettito stimato della quota parte di IVA ed accise ( 63,876 miliardi) e per il 26,5% IRAP e addizionale IRPEF. Un valore in lieve crescita ma di fatto sovrapponibile a quello dei due anni precedenti con un saldo di esercizio, tuttavia, positivo di 0,312 miliardi, essendo state le spese complessive pari a 115,835 miliardi.
Un sistema dunque in equilibrio finanziario ma in forte squilibrio erogativo per quanto riguarda i Livelli essenziali di assistenza (LEA). Non è mistero per nessuno, infatti, che il sistema è fortemente diseguale: ben funzionante in pochissime regioni ( Toscana, Veneto , Lombardia , Emilia Romagna e Liguria) e fortemente carente nel resto di Italia con aspetti da terzo mondo nella regione Calabria e Campania. Di fatto il Nostro SSN non è in condizioni di garantire a tutti i cittadini quel diritto alla salute previsto dall’articolo 32 della Costituzione.
Il raffronto in sede Europea
I dati di confronto narrano un’altra storia puntando dritto al problema della carenza delle risorse. In primis quelle finanziarie, considerato che la spesa procapite è troppo bassa essendo stata pari a soli 1.907 euro. E quindi di gran lunga inferiore ai circa 3.000 euro della media europea e ancora di più alla punta di 4000 euro della Germania o della Francia ( a un valore lievemente inferiore).
C‘è poi da entrare nel merito del faticoso equilibrio finanziario raggiunto. Il saldo positivo non è stato merito di comportamenti virtuosi o della tanto decantata spending review su beni e servizi. La spesa per tali capitoli, infatti, è passata dai 38,749 miliardi del 2015 ai 39,715 del 2016 nonostante la centrale unica di acquisti e l’osservatorio nazionale dei contratti. Il miglioramento dei conti è invece dovuto alla (consueta e reiterata) riduzione dello 0,6% della spesa per il personale, passata da 34,608 a 34,387 miliardi.
Si è dunque continuato a tagliare sulla carne viva: su un’altra risorsa, quella del personale dedicato, senza la quale il servizio non può sopravvivere perché il tipo di produzione non è robotizzabile essendo (per fortuna) totalmente labour-intense .
Nonostante questo, numerosi sono stati i tentativi di smontare il sistema; tentativi falliti perché come abbiamo più volte sostenuto i sistemi basati sul single-payer ovvero sia sul finanziatore unico (pubblico come nel nostro paese o privato come nel caso del Canada) sono di gran lunga superiori a quelli basati sui regimi assicurativi e su finanziatori multipli su cui gravano costi di gestione pari ad almeno il 10% delle risorse disponibili.
Nella difesa di questo sistema hanno svolto un ruolo importante prima i partiti di massa di stampo novecentesco e poi, con la fine delle ideologie e l’avvento dei partiti personali, i sindacati confederali che quel sistema universalistico avevano ampiamente contribuito a fare nascere.
La componente privata e la debolezza dei fondi assicurativi
La lampante dimostrazione della carenza di risorse è la crescita, ormai fuori controllo della spesa privata.
Gli ultimi dati disponibili forniscono la cifra monstre di 36 miliardi (2014). Di questi l’89,9% sono out of pocket ovvero sia a diretto carico dell’utente mentre solo il 10% è intermediata da fondi sanitari integrativi e complementari nonché da compagnie di assicurazioni.
Di fatto il settore economico dei fondi è in affanno e molteplici sono le iniziative di tipo lobbistico per rilanciare il mercato. E’ del tutto evidente che la costituzione di un unico fondo (inevitabilmente gestito dalla razza padrona del settore di cui si conosce nome e cognome) sarebbe una manna dal cielo in tempo di vacche magre. Libero gioco delle parti, si potrebbe dire, ma solo i gonzi possono credere a questa favoletta. Il risultato sarebbe che lo Stato cesserebbe di investire risorse fresche sulla sanità per riportare il sistema a un livello decente di universalità, mentre la strada prescelta sarebbe quella della de-contribuzione crescente con la costituzione di fatto di un secondo pilastro assicurativo.
Il falso mito del prestazionismo in sanità
La creazione di un secondo pilastro assicurativo inciderebbe negativamente non solo sull’equilibrio finanziario di lungo periodo, come ampiamente dimostrato dagli USA dove la spesa per la sanità viaggia intorno al 14% del PIL.
Le conseguenza peggiori riguarderebbero il modello di servizio che si vuole implementare. La facilitazione nell’accesso a prestazioni che i fondi integrativi potrebbero consentire non avrebbe nessun effetto sul miglioramento delle condizioni di salute della popolazione e creerebbe la falsa coscienza che basti un’ecografia o una visita periodica a prevenire le malattie. La strada per una buona salute passa invece dall’adozione di corretti stili di vita e dalla creazione di un ambiente di vita e di lavoro salubri. La promozione della salute necessita dunque di politiche attive e di un coinvolgimento dei diversi attori sociali che nulla ha a che vedere con il feticismo delle prestazioni tipico dei sistemi assicurativi. Chi pensa dunque che la strada per uscire dal sottofinanziamento del sistema e dalla sua sostanziale iniquità sia quella di ampliare l’offerta indipendentemente da ogni visione strategica commette un grave errore di valutazione e rinnega una lunga tradizione di pensiero critico che è stata la cifra del sindacato.
Rilanciare la sanità con nuovi investimenti e con una nuova visione
Per rilanciare la sanità serve dunque una nuova politica. Una politica che metta a disposizione le risorse necessarie a finanziarie il sistema e che promuova una cultura della salute tra gli operatori e i cittadini. Cure primarie, promozione della salute fin dai primi giorni di vita, lotta alla nocività negli ambienti di vita e di lavoro. E poi valorizzazione delle risorse umane e delle buone pratiche per favorire il coinvolgimento attivo di operatori e utenti. Lotta alla corruzione e lotta agli sprechi attraverso la definizione condivisa di protocolli e percorsi. Un processo di reingegnerizzazione del sistema che non ha nulla a che vedere con il modello on demande che i sistemi assicurativi promuovono. Attenzione dunque ai salti nel buio e alle scorciatoie per rilanciare surrettiziamente i settori produttivi in affanno. La conseguenza potrebbe essere quella di buttare il bambino con l’acqua sporca e intollerabile sarebbe se anche il sindacato condividesse questa strategia suicida.
Roberto Polillo