L’ultimo arrivato è il quiet quitting, il lasciare lentamente, un derivato delle great dimission, le grandi dimissioni. Alla base c’è la trasformazione del lavoro che si è scatenata dopo il lungo lockdown al quale ci ha obbligato la pandemia. Le persone, costrette a casa, si sono abituate a un nuovo modo di lavorare. E quando la pandemia è finita, o si credeva che fosse finita, e sono state costrette a tornare al posto di lavoro, hanno reagito male. La prima reazione è stata quella delle dimissioni. Hanno cominciato negli Stati Uniti, ma il fenomeno si è velocemente diffuso anche in Europa e a casa nostra. Di fronte all’alternativa tra il rinunciare al lavoro o tornare alle vecchie abitudini, tanti hanno scelto la prima opzione. Semplicemente si sono dimessi dal posto di lavoro e ne hanno cercato un altro, magari meno interessante, dove si guadagnava di meno, ma dove erano più liberi, dove potevano coniugare al meglio le esigenze di vita e di lavoro. Non era solo la possibilità di lavorare da casa a spingerli alla scelta, era la ricerca di un diverso sistema di vita.
Adesso il fenomeno sembra aver preso una strada diversa, appunto il quiet quitting. In tanti tirano i remi in barca. Delusi dalla loro condizione di lavoro non lasciano il posto, ma non si dannano più come prima, si impegnano al minimo, seguono le regole, ma non danno più di tanto. Non si identificano nel loro lavoro e quindi non si impegnano. Per un’impresa che cerca, magari disperatamente, di alzare il livello di produttività non è l’ideale doversi accontentare di un dipendente che non mette passione nel suo lavoro e che non è nemmeno possibile riprendere, perché il suo dovere lo fa, al minimo ma lo fa. E se l’impresa non accetta questo modo di lavorare e chiede di più? Nulla quaestio, si lavorerà un po’ di più, fino a quando sarà possibile, e dopo un certo limite si passerà alle dimissioni.
Il fenomeno è grave, non va assolutamente preso sottogamba, anche perché gli studi fatti dai centri di analisi dimostrano che la casistica è in aumento. Un problema per il nostro sistema produttivo che è afflitto dal basso livello di produttività, risalire dal quale è molto difficile. Se dovesse aggiungersi un’ulteriore demotivazione dei dipendenti si correrebbe il rischio forse non di un tracollo, ma certamente di gravi conseguenze sulla capacità di imporre il made in Italy sui mercati internazionali, cosa che non possiamo assolutamente permetterci. Questi comportamenti non vanno sanzionati – la riprovazione non comporterebbe alcun risultato – bensì monitorati e soprattutto compresi per evitare un ulteriore deterioramento.
Dietro questi modi di agire infatti c’è un’ansia di libertà che ha bisogno di una risposta adeguata. Alcune aziende stanno già iniziando a prendere le giuste contromisure. Certamente va in questa direzione l’offerta di Intesa San Paolo per un diverso orario di lavoro: non più 37 ore e mezza la settimana, ma solo 36 ore e concentrate in quattro giorni, lasciando libero il lavoratore di indicare il giorno in cui resterà a casa o magari anche, se la novità non fosse gradita, di rimanere con il vecchio orario. Una risposta, insomma, che cerca di andare incontro alle esigenze di vita dei lavoratori. Anche la Lamborghini si sta avviando nella stessa direzione: la piattaforma per l’integrativo presentata dai sindacati prevede la settimana di 4 giorni, oltre a una serie di altre proposte per rendere più attrattivo e ‘’confortevole’’ il posto di lavoro, e l’azienda si è detta disponibile a discuterne.
Nella medesima scia si colloca anche l’accordo che Enel ha trovato con i sindacati di settore per il varo di uno Statuto della persona, che altro non è che la ricerca di rispondere alle diverse esigenze individuali, esigenze che non vanno sottovalutate perché l’obiettivo finale è quello di ottenere il più largo consenso dei lavoratori. Una mossa vincente, perché ormai è chiaro, al centro di ogni strategia deve esserci la persona, con le sue fragilità, ma anche con la sua tenacia nel cercare un modello di vita migliore. Chi pratica relazioni industriali moderne sa bene che l’obiettivo più importante è la soddisfazione di chi lavora e che questo non si ottiene solo alzando le retribuzioni.
Fondamentale per la riuscita di questa operazione è l’adesione dei vertici aziendali a questa nuova filosofia. È necessario puntare sulla motivazione e la dedizione al lavoro. E naturalmente in questa dinamica è la partecipazione a farla da padrona. Perché nulla come l’abitudine a discutere assieme, a prendere le decisioni assieme può alla fine portare importanti risultati di soddisfazione. Chi si rifugia nel quiet quitting lo fa non perché rifiuta il proprio lavoro, ma perché lo sente estraneo. Le decisioni, gli obiettivi, le responsabilità condivisi possono modificare l’attuale criticità. E lo stesso vale per l’attenzione a misurare il lavoro non dalle ore prestate, ma dal risultato raggiunto. Questa pratica, nata per necessità nel periodo del lockdown, non dovrebbe essere abbandonata. Non sarà facile, ma forse non c’è alternativa.
Massimo Mascini